Domenico Losurdo
Post originale: dialnet.unirioja.es

Hegel, Marx, e l’ontologia dell’essere sociale (2010)

44 minuti | Deutsch English Italiano | Philosophy

Il testo è stato pubblicato per la prima volta in «Critica marxista», 5, 2010, pp. 40-49.

In questo breve contributo Losurdo ritorna sul rapporto tra Marx e Hegel alla luce delle diverse interpretazioni critiche, da Lukács a Bloch fino al neo-idealismo italiano, allo scopo di riavvicinare i due teorici tedeschi e mettere in discussione le categorie di materialismo e idealismo. In particolare, egli si concentra sul rapporto uomo-natura e sul tema del lavoro e dell’alienazione al fine di mostrare come la filosofia della storia di Hegel presenti una concezione della storia come liberazione e di ripensare un’ontologia dell’essere sociale.


Indice

Introduzione

Nel capitolo conclusivo dei Manoscritti economico-filosofici, Marx così sintetizza il suo giudizio su Hegel: «La cosa principale è che l’oggetto della coscienza non è altro che autocoscienza, o che l’oggetto è soltanto ‘autocoscienza oggettivata, l’autocoscienza come oggetto». Di conseguenza: «Il lavoro che Hegel soltanto conosce e riconosce è il lavoro spirituale, astratto». [1]

E una lettura che nel corso della successiva evoluzione di Marx conosce attenuazioni e modificazioni anche assai significative ma non un vero e proprio ripudio. Ed è una lettura che proprio nella sua formulazione più radicale ha fatto scuola negli autori e nelle correnti più diverse della tradizione marxista. Si prenda György Lukács, che pure in una sua celebre monografia (Il giovane Hegel e i problemi della società capitalistica) ha avuto il merito di sottolineare la centralità in Hegel dei temi del bisogno e del lavoro: se il primo tema rinvia chiaramente alla natura biologica dell’uomo, il secondo implica la trasformazione della natura fisica che si rende necessaria per l’appagamento dei bisogni. E, tuttavia, scrivendo nel 1967, dunque quattro anni prima della sua morte, Lukács non ha dubbi: «L’oggetto, la cosa in Hegel, esiste soltanto come alienazione dell’autocoscienza». [2] Resta però un mistero come, pur con questa propensione visionaria, Hegel possa essere, per citare sempre l’ultimo Lukács, «un filosofo con un robusto e vasto senso della realtà, con una fame talmente intensa di realtà genuina quale forse dopo Aristotele non è riscontrabile più in nessun altro pensatore». [3]

In modo analogo, sia pure a partire da un diverso orientamento, argomenta Ernst Bloch. Da un lato egli evidenzia «il risultato di grande rilievo», per cui nella Fenomenologia dello spirito «lo sviluppo ulteriore dell’autocoscienza avviene mediante la coscienza del servo che lavora»; e di nuovo siamo rinviati al tema del lavoro e, implicitamente, dei bisogni che esso è chiamato ad appagare, siamo cioè di nuovo rinviati sia alla natura fisica nel suo complesso sia alla natura biologica dell’uomo. Dall’altro lato Bloch afferma che la conquista dell’identità di soggettooggetto è da Hegel «intesa solo come la revoca completa delle esteriorizzazioni (gli oggetti in generale) nel soggetto», e ciò conformemente a una «dialettica che è idealistica sino in fondo e che diviene anzi via via più rarefatta». [4] Senza incrinature è invece la lettura di Hegel in chiave grottescamente coscienzialistica cui in Italia ha proceduto la scuola di Galvano della Volpe e di Lucio Colletti.

Se Marx e ancor più la tradizione che a lui si è richiamata si sono impegnati a evidenziare l’assoluta originalità della nuova visione del mondo e del nuovo movimento politico, sul versante opposto non solo il neoidealismo italiano, ma anche le più diverse correnti di pensiero si sono preoccupate, soprattutto negli anni della guerra fredda, di mettere al riparo Hegel da ogni contaminazione col «materialismo» comunista, che dileggiava e minacciava i valori ideali, spirituali e religiosi dell’Occidente, è a partire da queste diverse e contrapposte motivazioni che ha finito con l’affermarsi come un luogo comune la lettura di Hegel quale campione del coscienzialismo o del panlogismo. In una situazione storica radicalmente mutata è ora di ripensare il problema in termini nuovi.

1. Natura e lavoro in Hegel

Per iniziare, conviene tener presente che, dopo le considerazioni metodologiche di carattere generale e prima di dare inizio alla narrazione vera e propria, le Lezioni sulla filosofia della storia si aprono sottolineando «le basi geografiche della storia mondiale» e chiarendo che senza tener conto della geografia, del «terreno» dove affonda le sue radici lo «spirito del popolo», senza tener conto del suo «legame» con la «natura», di questa «base essenziale e necessaria», non è possibile comprendere nulla del concreto svolgimento storico e politico. [5]

Come si vede, la natura è tutt’altro che dileguata. Anzi, semmai essa gioca un ruolo eccessivo. Le Lezioni sulla filosofia della storia ritengono che «nella zona fredda e nella zona calda non può trovarsi il terreno di popoli storico-mondiali […] In quelle zone estreme l’indigenza non può mai [nie] cessare, né può mai [niemals] essere prevenuta; l’uomo non può far altro che dedicare di continuo la sua attenzione alla natura, ai raggi incandescenti del sole e al gelo dei ghiacci». [6] Il meno che si possa dire è che appare problematica l’insistenza sull’immodificabilità del dato di fatto naturale. Possiamo convenire con Hegel che le civiltà marittime danno generalmente prova di maggiore apertura e intraprendenza: «la terraferma», infatti, «fissa l’uomo al suolo e gliene derivano così un’infinità di impacci». [7] Ma non possiamo sottoscrivere l’ulteriore affermazione in base alla quale nelle civiltà marittime «la libertà civile» va di pari passo con «il commercio e la navigazione». [8] Rimossa da questo quadro è la tratta degli schiavi neri che vede a lungo come protagonisti Stati, regioni e città affacciati sul mare e attivamente impegnati per l’appunto nella navigazione e nel commercio.

Al di là della natura fisica, a giocare un ruolo essenziale in Hegel è anche la natura biologica dell’uomo. Il trionfo dei conquistadores nel Nuovo Mondo viene spiegato con una serie di fattori: la mancanza «del cavallo e del ferro» e la «debolezza della costituzione naturale» degli indigeni; [9] non si fa cenno, invece, alle contraddizioni e ai conflitti che attraversavano in profondità le società pre-colombiane e che probabilmente hanno svolto nella disfatta inflitta dagli invasori un ruolo più importante che non la fragile costituzione fisica degli indigeni. In conclusione, è vero che Hegel mette in guardia contro il pericolo del riduzionismo e sintetizza così il suo punto di vista: «Non dobbiamo stimare la natura né troppo né troppo poco». [10] E, tuttavia, se una critica dev’essere rivolta al filosofo, essa è non già l’idealismo ma la caduta talvolta nel naturalismo.

Date queste premesse, l’affermazione già vista dei Manoscritti economico-filosofici, in base alla quale il lavoro di cui parla Hegel sarebbe esclusivamente «il lavoro spirituale, astratto», può essere considerata solo come l’espressione di una intemperanza giovanile (ma dell’enfatizzazione di un’affermazione contenuta in appunti non destinati alla pubblicazione sono responsabili soprattutto gli interpreti novecenteschi). In realtà, se è ben presente nella filosofia della storia, la natura non è certo assente nella filosofia politica di Hegel: «L’uomo è in relazione pratica con la natura allorché si pone di fronte ad essa come un individuo immediato ed esterno a qualcosa di immediato ed esterno, e quindi come un individuo sensibile». [11] È una relazione pratica che si estrinseca mediante il lavoro; e il duro impegno del lavoro presuppone la resistenza e dunque lo spessore materiale della natura: «Serio è il lavoro in relazione al bisogno, è necessario che soccomba io o la natura, se l’uno deve esistere, l’altra deve cedere». [12] E sarebbe immancabilmente l’uomo a cedere e a soccombere, se egli affrontasse la lotta a mani nude: «Qualunque siano le forze sviluppate e scatenate dalla natura contro l’uomo — freddo, bestie selvagge, acqua, fuoco — egli sa far ricorso a mezzi contro di esse, e desume tali mezzi dalla natura stessa e li utilizza contro di essa». [13] Sì, lo sviluppo della tecnica, delle forze produttive, in ultima analisi della storia, è la risposta che l’uomo oppone alla resistenza opposta dalla natura all’appagamento dei suoi bisogni: «Gli oggetti naturali [Naturgegenstände] sono potenti e prestano una tesistenza [Widerstand] molteplice. Per domarli, l’uomo frappone altre cose naturali [Naturdinge], ritorce per questa via la natura contro se stessa e, a tal fine, inventa strumenti. Queste invenzioni umane appartengono allo spirito, perciò lo strumento è da stimare più che l’oggetto naturale». [14] E, in quanto risultato permanente della lotta che l’uomo conduce per assicurarsi la sopravvivenza e il miglioramento delle condizioni di vita, lo strumento sta più in alto dell’appagamento momentaneo dei bisogni che esso riesce ad assicurate: «L’aratro è più nobile di quanto immediatamente non siano i godimenti ch’esso procura e che costituiscono gli scopi. Lo strumento si conserva, mentre i godimenti immediati passano e vengono dimenticati». [15] Non a caso, nell’antica Grecia, «l’onore dell’invenzione umana, che addomestica la natura, è ascritto agli dei». [16]

Si tratta, tuttavia, di un addomesticamento che è ben lungi dall’essere illimitato. Se il dilemma in base al quale nel rapporto uomo-natura uno dei due termini è destinato a cedere provocherebbe disappunto nei seguaci del moderno movimento ecologista, susciterebbe invece il loro favore l’ulteriore osservazione contenuta sempre nell’Enciclopedia: nella sua lotta l’uomo consegue vittorie importanti, ma pur sempre parziali; «per quanto riguarda la natura in quanto tale, la natura nel suo complesso, egli non può né padroneggiarla in questo modo né subordinarla ai suoi fini». [17]

In Hegel la natura è così poco assente, che essa svolge un ruolo essenziale nella stessa definizione delle categorie centrali del discorso politico. Si prenda la «libertà». Perché l’affamato che rischia di perdere la vita a causa dell’inedia già per questo viene a trovarsi in una situazione di «totale mancanza di diritti», di vanificazione dell’«intera estensione della realizzazione della libertà», [18] e quindi di sostanziale schiavitù? Per il fatto che «la vita» è «il lato reale della personalità». [19] Siamo ricondotti alla natura biologica dell’uomo, la cui centralità è ulteriormente evidenziata dall’affermazione per cui «la vita costituisce un diritto autentico di contro al diritto formale». [20]

Anche la cessione al datore di lavoro, sia pure contrattualmente sancita, di tutto il tempo della vita concreta di un operaio equivarrebbe a una riduzione in stato di schiavitù. Leggiamo i Lineamenti di filosofia del diritto: «Con l’alienazione di tutto il mio tempo concreto di lavoro e della totalità della mia produzione, renderei proprietà di un altro l’elemento sostanziale della mia produzione, la mia universale attività e realtà, la mia personalità». [21]

Forse ancora più eloquenti sono i brani corrispondenti nei corsi di lezioni: «Con l’alienazione di tutto il mio tempo da trascorrere nel lavoro, renderei proprietà di un altro la mia universale attività e realtà, la mia personalità». [22] E ancora:

Mediante l’alienazione dunque di tutto il mio tempo concreto, riempito dal mio lavoro, ovvero della produzione nella sua totalità, viene alienato anche l’intero […] La mia personalità è dunque mantenuta, se viene alienata solo una parte della mia particolarità, limitata nel tempo. [23]

Se nei Lineamenti sono pensate e definite a partire dalla «vita», ora la persona e la libertà della persona sono pensate e definite a partire dal tempo concreto del lavoro e della vita, nonché dall’insieme dell’attività e dell’estrinsecazione delle forze vitali dell’uomo. Ben lungi dall’essere «il lavoro spirituale, astratto» a essere l’oggetto dell’analisi di Hegel, questa agisce chiaramente alle spalle della celebrazione in termini epici che Il capitale fa della lotta per la regolamentazione e riduzione dell’orario di lavoro come lotta per la libertà. Nelle parole di Marx, l’operaio si organizza e si impegna per non essere ridotto a semplice forza-lavoro «durante tutto il tempo della sua vita», per non subire un’ulteriore «riduzione del tempo che egli ha da vivere» [Lebenszeit]. [24] Il capitale riporta e sottoscrive la denuncia che gli operai inglesi fanno della condizione ad essi imposta: «La durata del tempo di lavoro richiesta sotto l’attuale sistema è troppo lunga e non lascia all’operaio nessun tempo per il riposo e l’istruzione, anzi lo abbassa a uno stato di servitù che è poco migliore della schiavitù». [25]

Ritorniamo ora alla filosofia della storia di Hegel: la storia della libertà è anche la storia della progressiva liberazione del lavoro (materiale) dai ceppi della schiavitù e della servitù. Nell’Oriente dispotico quasi tutti sono «servi [Knechte] per la costruzione di opere di una grandezza enorme». [26] In Grecia, dove propriamente inizia la storia della libertà, «la particolarità attinente al bisogno [cioè all’appagamento dei bisogni mediante il lavoro materiale] non è ancora accolta nella libertà, ma esclusa e confinata in una classe di schiavi». [27] Ancora nel mondo contemporaneo l’operaio disoccupato o invalido, che rischia la morte per inedia, è in condizioni — come sappiamo — di sostanziale schiavitù. La storia della libertà e della liberazione del lavoro (materiale) non è ancora conclusa.

2. Essere e essere sociale

Allorché si imbatte nel brano già visto in cui Hegel sottolinea il rapportarsi dell’uomo «alla natura esterna in modo pratico», Lenin è spinto ad accostare in modo esplicito «Hegel e Marx» e a sottolineare gli «spunti in Hegel di materialismo storico». [28] Già, ma che cos’è il materialismo storico? Nell’Ideologia tedesca possiamo leggere: «La coscienza non può essere nulla di diverso dall’essere cosciente, e l’essere dell’uomo è il suo reale processo vitale». [29] Vediamo ora la formulazione contenuta nella Prefazione a Per la critica dell’economia politica: «Non è la coscienza degli uomini che determina il loro essere, ma al contrario è il loro essere sociale [gesellschaftliches Sein] che determina la loro coscienza». [30] Potremmo allora così formulare il problema: a definire il materialismo storico è il rinvio all’«essere» o all’«essere sociale»? Ovviamente, c’è un rapporto tra l’uno e l’altro, ma la comprensione dei conflitti sociali e dei processi storici esige in primo luogo l’analisi dell’essere sociale. Diversamente, non avrebbe senso la tesi con cui si apre il Manifesto del partito comunista, in base alla quale la storia è «storia delle lotte di classe». D’altro canto, solo così si può spiegare il rimprovero di idealismo storico dall’Ideologia tedesca rivolto a un filosofo che pure non si stanca di fare professione di materialismo: «Fin tanto che Feuerbach è materialista, per lui la storia non appare. E fin tanto che prende in considerazione la storia, non è un materialista. Materialismo e storia per lui sono del tutto divergenti». [31] In altre parole, in Feuerbach costante è il rinvio alla natura, all’essere naturale, ma assente è l’essenziale, l’attenzione per l’essere sociale, per l’oggettività sociale. Proprio a causa di tale assenza, il soggetto è costituito sempre dall’«uomo» in generale e mai dagli «uomini storici reali», [32] dagli uomini alle prese con condizioni materiali di vita storicamente determinate e collocati in rapporti sociali e in conflitti sociali anch’essi storicamente determinati.

A questo punto è d’obbligo la domanda: come stanno le cose per Hegel? Lo stesso Bloch, il quale l’accusa di aver dissolto l’oggettività in quanto tale, osserva con acutezza che a caratterizzare il presunto filosofo idealista è un «grandioso rovesciamento dell’ironia [romantica] del soggetto in quella dell’oggetto». [33] L’oggetto di cui qui si parla è l’oggetto sociale, è l’essere sociale. Si potrebbe dire che a scandire lo sviluppo della Fenomenologia dello spirito è la progressiva e sempre più ricca e sempre più matura presa di coscienza dello spessore dell’oggettività sociale, dalla quale non è possibile e non è lecito evadere, anche quando, anzi soprattutto quando si nutrono ambiziosi progetti di trasformazione del mondo. Ogni volta che la coscienza pretende di atteggiarsi sovranamente rispetto all’essere sociale, questo finisce con l’avere la meglio. È così che il «corso del mondo» [Weltlauf] esercita la sua ironia sulla «virtù» [Tugend] e il processo storico reale esercita la sua ironia prima sulla «coscienza onesta» [ehrliches Bewußtsein], poi, con modalità diverse, sulla «coscienza nobile» [edelmütiges Bewußtsein] e, infine, sull’«anima bella» [schône Seele]. Sino alla fine Lukács rimprovera a Hegel di aver identificato l’«estraneazione» con l’«oggettivazione» e persino con l’«oggettività». [34] Ci troveremmo dunque dinanzi a un filosofo che fugge dall’oggettività come da un elemento di contaminazione. Sennonché è proprio questa la critica che Hegel rivolge a Kant e all’anima bella. Il primo è come paralizzato dalla «paura dell’oggetto» [Angst vor dem Objekt]. [35] Per quanto riguarda la seconda: «Le manca la forza dell’esteriorizzazione, la forza di farsi cosa e di sopportare l’essere. La coscienza vive nell’angoscia di macchiare con l’azione e l’esserci lo splendore della sua interiorità; e, per conservare la purezza del suo cuore, fugge il contatto con la realtà». [36] Secondo Hegel, è la Germania del suo tempo a soffrire di una sorta di malattia nazionale che è l’«ipocondria». Sì, l’«ipocondria» è il «punto di vista» dominante, ed esso «tende vana ogni oggettività e gode poi ancora in se stesso soltanto di questa vanità». [37] E così Lukács attribuisce a Hegel la malattia che questi diagnostica e denuncia con tanta forza!

Vale la pena di notare che l’hegeliana ironia dell’oggetto è fortemente apprezzata e assimilata in profondità da Marx ed Engels. Essi se ne servono per farsi beffe di coloro che, soprattutto dopo la sconfitta di una rivoluzione, invece di impegnarsi nell’analisi delle contraddizioni oggettive, delle debolezze ideologiche e degli errori politici che hanno condotto a tale risultato, preferiscono fornire assicurazioni sulla bontà e purezza delle proprie intenzioni di contro alla generale volgarità e malvagità della realtà circostante e del corso del mondo. Nel condannare in quanto impotente sul piano politico e narcisistico sul piano morale questo idealismo storico, Marx ed Engels fanno esplicito e ripetuto riferimento alle figure della Fenomenologia dello spirito precedentemente citate. Giunto alla conclusione che «il mondo è governato con ben poca saggezza», Arnold Ruge e gli altri «rivoluzionari» dello stesso tipo non possono fare a meno di esibire la loro «coscienza onesta» ovvero la loro «coscienza nobile». In Germania come in Francia gli anni che fanno seguito al 48 vedono pavoneggiarsi e piagnucolare l’«anima bella», che si sente «misconosciuta» e incompresa dall’umanità profana. Sennonché, «già il vecchio Hegel ha giustamente osservato che la coscienza nobile si rovescia sempre in quella ignobile»; e a uno sguardo più attento l’anima bella smarrisce presto la sua pretesa immacolatezza. [38]

Se in Feuerbach la mancata attenzione all’oggettività sociale va di pari passo, secondo il giudizio di Marx, con una visione della storia in cui non c’è posto per gli «uomini storici reali», e cioè per uomini collocati in rapporti sociali e di classe ben determinati, il contrario avviene in Hegel: fortissima è l’attenzione riservata da quest’ultimo al conflitto sociale e alla sua concreta configurazione. Ciò vale per la storia antica come per quella moderna e contemporanea. Per limitarmi a un esempio: nell’ambito dell’Antico regime, la «libertà dei baroni» [Freiheit der Barone] comporta l’«assoluta serviti» [absolute Knechtschaft] della «nazione» e impedisce la «liberazione dei servi della gleba» [Befreiung der Hörigen]. Per questo «il popolo [..] dappertutto si è liberato [befreit] mediante la repressione [Unterdrückung] dei baroni». [39] L’aristocrazia avverte la perdita del privilegio, che ad esempio faceva di lei l’unica depositaria dell’amministrazione della giustizia, «come violenza sconveniente, come oppressione della libertà [Unterdrückung der Freiheit] e come dispotismo». [40] Ma — osserva Hegel — «quando si parla di libertà, si deve sempre attentamente osservare se non siano in realtà interessi privati quelli di cui si tratta». [41] È una conclusione che suscita l’interesse e il plauso di Lenin, che in essa di nuovo scorge «spunti» di «materialismo storico», per la doverosa attenzione riservata ai «rapporti di classe». [42]

3. L’idealismo storico come indebolimento o negazione dell’essere sociale

E di nuovo, anche agli occhi di Lenin, il materialismo storico rinvia in primo luogo all’essere sociale. È la visione dell’essere sociale, è la visione della storia e della società, del «terreno artificiale» (per dirla con Labriola) in cui si colloca la vita dell’uomo, della seconda natura, a costituire il campo di battaglia decisivo della lotta politico-ideologica; anche se poi occorre aggiungere che l’essere sociale è a sua volta condizionato dall’essere naturale. Una visione «materialistica» della prima natura, e cioè l’affermazione della priorità dell’oggetto rispetto al soggetto, della natura rispetto alla coscienza, la possiamo trovare anche nell’ambito delle religioni, ma ciò non ha loro impedito di configurarsi per millenni come lo strumento di consacrazione e trasfigurazione idealistica dei rapporti politico-sociali esistenti. E la visione «materialistica» della prima natura caratterizza ovviamente Feuerbach, ma ciò non gli impedisce di cadere nell’idealismo storico. Dal punto di vista di Marx (ed Engels) una critica analoga si può forse rivolgere allo Hegel che abbiamo visto limitare alle zone temperate l’area in cui possono emergere i popoli storico-mondiali o attribuire un notevole peso alla fragile costituzione degli amerindi per spiegare la catastrofe inflitta loro dai conquistadores. Tale idealismo, tuttavia, non è affatto sinonimo di coscienzialismo. Ma allora perché mai è così diffusa l’interpretazione in chiave coscienzialistica? Ad aiutarci a rispondere a tale domanda può essere forse un’osservazione dell’ultimo Lukács il quale, dopo aver sottolineato, come sappiamo, lo straordinario «senso della realtà» proprio di Hegel, aggiunge che in lui, «simultaneamente all’appropriazione dei fatti stessi, al centro dell’attenzione vi era la loro costruzione categoriale». Basta separare la seconda dimensione dalla prima e il gioco è fatto!

In realtà, del tutto estraneo al coscienzialismo, Hegel è per lo più ben lontano anche dall’idealismo storico. Per rendersene conto, basta fare un esempio. Tra la fine del Settecento e i primi decenni dell’Ottocento la cultura e la filosofia politica sono costrette in Occidente ad affrontare un problema: come spiegare il diverso sviluppo della Francia rispetto all’Inghilterra e agli Stati Uniti? Nel primo paese alla rivoluzione faceva seguito la controrivoluzione, la quale spianava a sua volta la strada a un’ulteriore rivoluzione. I regimi politici si susseguivano l’uno all’altro: monarchia assoluta, monarchia costituzionale, terrore giacobino, dittatura militare, Impero, repubblica democratica, bonapartismo… E non si riusciva a intravvedere la fine della crisi e la stabilizzazione. Come tutto ciò contrastava in modo clamoroso con l’evoluzione graduale e costruttiva degli altri due paesi! Ebbene, come spiegare questo radicale contrasto? Autori importanti quali Tocqueville e J. S. Mill celebrano il robusto senso morale e pratico e l’amore dell’autonomia e della libertà individuali che caratterizzerebbero gli angloamericani: è grazie a tali virtù che essi, in contrapposizione agli sciagurati francesi, riuscirebbero a evitare l’orrore delle guerre civili e salvaguardare la libertà. Questa spiegazione cade, almeno per quanto riguarda Tocqueville, mentre negli Stati Uniti è vivo e vitale l’istituto della schiavitù, pochi anni prima che la Guerra di secessione provochi negli stessi Stati Uniti un bagno di sangue e due decenni prima che, con l’avvento della Terza Repubblica, la Francia veda emergere una solida democrazia parlamentare, certo non meno avanzata di quella inglese e americana.

Vediamo ora la lettura di Hegel. Le Lezioni di filosofia della storia mettono in evidenza due punti essenziali:

  1. «I liberi stati nordamericani non hanno nessuno Stato confinante con il quale si trovino in un rapporto analogo a quello degli Stati europei fra di loro, uno Stato che debbano guardare con diffidenza e contro il quale debbano mantenere un esercito permanente».
  2. «la via d’uscita della colonizzazione» consente alla repubblica nordamericana di disinnescare in notevole misura il conflitto sociale. In ultima analisi: «se le foreste della Germania fossero ancora esistite, è certo che non avremmo avuto la rivoluzione francese», oppure questa si sarebbe manifestata in modo meno radicale e meno tormentato. [43]

Non diversamente da Hegel argomenta Engels, il quale fa notare che in «Nord-America […] i conflitti di classe sono sviluppati solo in modo incompleto; le collisioni di classe vengono di volta in volta camuffate mediante l’emigrazione all’Ovest della sovrappopolazione proletaria». [44]

Ecco due spiegazioni materialistiche. Ma quella fornita dal primo è più ricca: fa riferimento ad un elemento (la collocazione geopolitica) che invece è assente nel secondo. Almeno nella visione propria di Hegel, la collocazione geopolitica (il vantaggio per gli Stati Uniti di non avere ai propri confini grandi potenze tendenzialmente rivali) è un dato non meramente naturale bensì mediato dalla storia: siamo in presenza cioè di un’ulteriore articolazione dell’essere sociale.

Nella contrapposizione stereotipa che Tocqueville e Mill fanno di francesi e anglosassoni l’idealismo storico risiede nell’oblio dell’essere sociale e nell’invenzione di un essere naturale inesistente. Questa medesima osservazione si può fare per altre correnti di pensiero che, in modo ancora più accentuato, slittano dall’essere sociale all’essere di una presunta natura antropologica e razziale.

4. Critica dell’idealismo e ontologia dell’essere sociale

Facendo tesoro della lezione di Marx ed Engels, è possibile rimproverare a Hegel cadute nell’idealismo storico. Ma da tali cadute sono immuni coloro che per primi si sono impegnati nella sistemazione teorica del materialismo storico?

Nella società comunista auspicata da Marx ed Engels, assieme alla divisione in classi, dileguano il mercato, la nazione, la religione, lo Stato e forse persino la norma giuridica in quanto tale, resa tanto più superflua da uno sviluppo delle forze produttive così prodigioso da consentire il libero appagamento di ogni bisogno e quindi il superamento del difficile compito della distribuzione delle risorse. Una tale visione è all’altezza del materialismo storico? Nell’impegnarsi, sulla scia della tradizione marxista, nella costruzione di un’ontologia dell’essere sociale, l’ultimo Lukács mette giustamente in guardia contro un doppio pericolo di idealismo storico: «l’essere sociale non è stato distinto dall’essere in generale, oppure lo si è visto come alcunché di radicalmente diverso senza più affatto il carattere dell’essere». [45] Con la sua insistenza sulla prassi e la trasformazione del mondo, il pensiero rivoluzionario è esposto al secondo tipo di idealismo storico. Si pensi a Fiche che istituisce un parallelismo tra la sua Dottrina della scienza e l’energica azione della Francia rivoluzionaria: «Come quella nazione dà all’uomo la libertà dalle catene esterne, così il mio sistema lo libera dai vincoli delle cose in sé, dalle influenze esterne». [46] Ma non diversamente da Fiche si pone il giovane Lukács allorché nel 1922, sotto l’influenza della rivoluzione che stava sconvolgendo il mondo, scrive: «Il nucleo dell’essere si è scoperto come accadere sociale, l’essere può apparire come prodotto, finora rimasto certamente inconsapevole, dell’attività umana, e quest’ultima può a sua volta apparire come l’elemento determinante della trasformazione dell’essere». [47] Traspare anche qui quello che potrebbe essere definito l’idealismo della prassi.

Marx ed Engels si formano negli anni in cui da un lato sono ancora possenti gli echi della Rivoluzione francese, dall’altro già si intravvedono i segni premonitori della gigantesca ondata rivoluzionaria del 48 che, nelle speranze dei due giovani rivoluzionari, al di là dei vecchi rapporti feudali avrebbe dovuto mettere in discussione anche l’ordinamento borghese. Ben si comprende che, nella visione del comunismo da essi maturata, il mercato, la nazione, la religione, lo Stato tendono, per usare il linguaggio del Lukács più maturo, a smarrire «il carattere dell’essere».

L’essere dell’essere sociale può essere indebolito o negato in due modi diversi. A produrre tale risultato può essere in primo luogo una visione schematica della storicità, incapace di distinguere tra breve durata e lunga durata: fuori discussione è la storicità delle nazioni e delle lingue nazionali, ma prevederne l’estinzione, sia pure sull’onda di una rivoluzione radicale, significa smarrire la dimensione della lunga durata o avere una visione distorta dell’essere sociale, configurandolo come una realtà omogenea regolata da un tempo storico omogeneo. E, invece, realtà tra loro così diverse come, ad esempio, le mode, le istituzioni politiche, le lingue nazionali si sviluppano con temporalità tra loro radicalmente diverse, si caratterizzano cioè per uno spessore ontologico di volta in volta diverso.

Oppure, l’essere dell’essere sociale può risultare indebolito o negato allorché si perde di vista quanto di naturale continua ad esserci nel mondo storico e politico: per sviluppata che possa essere una società, gli individui che la compongono continuano ad essere enti naturali soggetti a fragilità biologica, e tale fragilità si manifesta non solo nella malattia e nella morte ma anche nelle passioni. Ciò rende impossibile quella immediata identificazione tra individuo e genere spesso sognata dalle correnti più messianiche del movimento comunista. La possibilità del conflitto tra individui diversi continua a sussistere anche in una società liberata dalla divisione e dall’antagonismo di classe: che senso ha parlare di estinzione dello Stato e persino dell’ordinamento giuridico in quanto tale?

I due processi attraverso i quali risulta indebolito o annullato l’essere dell’essere sociale possono anche intrecciarsi: è quello che si verifica allorché ci si attende il dileguare della religione sull’onda del superamento dell’oppressione di classe. Per un verso, tale previsione non tiene conto di quanto di naturale continua ad esserci nella realtà sociale, perde di vista cioè la precarietà dell’esistenza individuale e la paura della morte. Per un altro verso, a tale previsione sfugge il legame tra religione e identità nazionale: piuttosto che essere espressione esclusiva della lotta di classe, la religione rinvia anche a una realtà sociale (la nazione) certamente storica, ma regolata da una temporalità all’insegna di una durata assai lunga.

La storia del «socialismo reale» è anche la storia della dolorosa scoperta dell’oggettività dell’essere sociale. Meno di due anni dopo lo scoppio della Rivoluzione d’ottobre, Gramsci osserva: al «cupo abisso di miseria, di barbarie, di anarchia, di dissoluzione» aperto «da una guerra lunga e disastrosa» hanno saputo porre fine solo i bolscevichi; essi costituiscono pertanto «una aristocrazia di statisti» e Lenin è da considerare come il «più grande statista dell’Europa contemporanea». Ben si comprende la reazione scandalizzata di un lettore anarchico dell’Ordine Nuovo. Egli fa notare che è la stessa Costituzione sovietica a impegnarsi a instaurare un ordinamento, nel cui ambito «non vi saranno più divisioni di classi, né potere dello Stato». Lo Stato russo salvato dai fautori dell’estinzione dello Stato: non è l’unico paradosso nella storia del socialismo reale!

La Rivoluzione d’ottobre avrebbe dovuto mettere in moto un processo destinato a sfociare nel dileguare non solo dei confini statali ma anche delle identità e dei confini nazionali. Sennonché, nel marzo 1929 Stalin non può fare a meno di osservare: «la stabilità delle nazioni è grande in misura colossale». Anche a tale proposito si può constatare un paradosso analogo a quello appena visto: non c’è dubbio che, conferendo un poderoso impulso al processo di emancipazione dei popoli coloniali, il movimento comunista abbia contribuito in misura notevole al rafforzamento e al moltiplicarsi delle identità nazionali. La medesima osservazione si può fare a proposito delle lingue che pure, secondo una visione diffusa negli ambienti marxisti e condivisa anche da Karl Kautsky, avrebbero dovuto fondersi prima o poi nella lingua unitaria dell’umanità finalmente unificata. Né i paradossi si fermano qui: in società arretrate e semifeudali lo sviluppo dell’economia e delle forze produttive promosso dai comunisti giunti al potere ha comportato lo sviluppo anche dei rapporti mercantili e comunque l’avvento di un autentico mercato nazionale. In conclusione, la pratica reale di governo metteva in crisi la piattaforma teorica con cui, soprattutto in Russia, i comunisti erano giunti al potere. Ovviamente, non sono mancati i tentativi di porre in qualche modo rimedio a tale divaricazione. Nel 1939, come a ragione osserva un illustre giurista (Hans Kelsen), la teoria dell’estinzione dello Stato è di fatto abbandonata da Stalin, il quale finiva anche col prendere più o meno cautamente le distanze dall’attesa della finale fusione delle nazioni e delle lingue nazionali e dalla visione in base alla quale la «produzione mercantile» sarebbe sinonimo di «capitalismo». [48]

Infine. Al momento dell’invasione dell’Urss da parte del Terzo Reich, Stalin faceva appello con successo alla Chiesa ortodossa perché essa sostenesse e alimentasse la resistenza nazionale. Disgraziatamente, la (parziale) tolleranza religiosa era solo una breve stagione. E tuttavia, se pensiamo al Terzo Mondo, è probabile che, sia pure attraverso molteplici mediazioni, promuovendo la riscossa dei popoli coloniali, il movimento storico che si è richiamato a Marx abbia finito con lo stimolare il rafforzamento delle identità religiose e la rinascita religiosa almeno in certe aree del Terzo Mondo.

Nel complesso, tardivo, parziale e contraddittorio è stato l’adattamento della teoria alla prassi, sicché enormi sono stati i guasti provocati dall’idealismo storico (e dal messianismo): già resa assai difficile da uno stato d’eccezione permanente, la costruzione di uno Stato di diritto e democratico risultava priva di senso nella prospettiva dell’estinzione dello Stato. Allorché è scoppiato il conflitto tra Unione sovietica e Jugoslavia e Unione sovietica e Cina, gli antagonisti, partendo dal presupposto comune per cui i dissidi tra le nazioni dileguano con l’avvento del socialismo, si sono reciprocamente accusati di tradimento. Ognuno di essi era convinto di seguire il materialismo storico, individuando la radice di classe (il ritorno del capitalismo) a fondamento del comportamento criticato nel paese avversario, ma in realtà tutti davano prova di idealismo storico, perdendo di vista lo spessore ontologico delle realtà e individualità nazionali tra le quali, anche dopo l’avvento del socialismo, continuano a sussistere interessi diversi e possibili fonti di conflitto.

Il passaggio dal rabberciamento al ripensamento teorico comincia a delinearsi solo a cavallo del crollo del socialismo in Europa orientale. Coloro che avvertono l’inanità dell’atteggiamento alla Ruge e che si rifiutano di costituire una nuova incarnazione delle figure dell’ «anima bella», della «coscienza onesta» e della «coscienza nobile» sbeffeggiate prima da Hegel e poi da Marx ed Engels, costoro richiamano l’attenzione, con linguaggio e modalità diverse, sulla necessità di un’ontologia dell’essere sociale. A formulare tale esigenza si può giungere a partire dall’esperienza di governo ovvero dalla riflessione filosofica. Nel 1991 Fidel Castro osservava: «Noi socialisti abbiamo commesso un errore nel sottovalutare la forza del nazionalismo e della religione». [49] A migliaia di chilometri di distanza, rompendo con la Rivoluzione culturale (dall’estrema sinistra occidentale talvolta salutata come l’inizio o il possibile inizio dell’estinzione dello Stato), a partire dalla fine degli anni ‘70 del Novecento Deng Xiaoping chiamava a impegnarsi per l’estensione e il miglioramento del «sistema legale» e per l’introduzione del «governo della legge» nel Partito e «nella società nel suo complesso» quali precondizioni per un reale sviluppo della «democrazia». [50] Come non significava l’estinzione dello Stato, così il socialismo non comportava né il dileguare del mercato né il fondersi dei paesi impegnati nella costruzione del nuovo ordinamento sociale in una comunità priva di tensioni e conflitti. Anzi — concludeva il leader cinese conversando con Gorbacev nella primavera del 1989 — piuttosto che divergenze ideologiche, a provocare il conflitto sovietico-cinese era stato il fatto che «i cinesi non erano trattati quali eguali e si sentivano umiliati»; grazie alla nuova consapevolezza faticosamente acquisita, era possibile voltare pagina. [51] Ma ormai, almeno per l’Urss era troppo tardi, e anche per la Cina la situazione non era priva di pericoli, come dimostrava l’«incidente» di piazza Tienanmen.

Conviene riformulare e generalizzare i due bilanci autocritici di Castro e Deng. Ad essere oggetto di sottovalutazione di stampo idealistico è stato lo spessore dell’essere sociale dello Stato, della nazione, della lingua, della religione, del mercato, lo spessore di tutto ciò che era stato chiamato a dileguare. Il marxismo rivela così di aver bisogno di un’ontologia dell’essere sociale. E un problema colto con chiarezza, a partire in questo caso dalla riflessione filosofica, dall’ultimo Lukács, anche se il libro da lui dedicato a tale tema si presenta in larga parte come una promessa non mantenuta: nell’ambito del marxismo, lo Stato, la nazione, la lingua, la religione, la molteplicità delle civiltà, il mercato, le diverse configurazioni dell’essere sociale attendono ancora di essere indagate ontologicamente. Ci si può chiedere se, per l’assolvimento di tale compito, non siano di grande utilità le analisi a tale proposito sviluppate da Hegel. Il problema può essere qui solo accennato. Ma è convinzione di chi scrive che a risolvere il problema della ricostruzione e riformulazione del materialismo storico può fornire un contributo essenziale il pensiero di un filosofo ostinatamente e superficialmente tacciato di idealismo.


[1] K. Marx, F. Engels, Werke, Dietz, Berlin 1955-89, I Erg. Bd., pp. 574-5. D’ora in avanti abbreviate in MEW seguite dal numero del volume. 

[2] G. Lukács, Geschichte und Klassenbewusstsein, trad. it. Storia e coscienza di classe, a cura di G. Piana, SugarCo, Milano 1988, p. XXV. 

[3] G. Lukács, Zur Ontologie des gesellschaftlichen Seins, trad. it. Ontologia dell’essere sociale, a cura di A. Scarponi, Editori Riuniti, Roma, 1976-1981, p. 181. 

[4] E. Bloch, Subjekt-Objekt. Erläuterungen zu Hegel, Suhrkamp, Frankfurt a. M. 1962, pp. 71 e 69. 

[5] G. W. F. Hegel, Werke in zwanzig Bänden, a cura di Eva M. e K. M. Michel, Suhrkamp, Frankfurt a. M., Bd., XII, p. 105. D’ora in poi abbreviate in W seguite dal numero del volume. Per quanto riguarda Hegel nelle note seguenti verranno utilizzate anche le seguenti sigle: Ph.G. = Vorlesungen über die Philosophie der Weltgeschichte, a cura di G. Lasson, Meiner, Leipzig, 1919-20; E = Enciclopedia delle scienze filosofiche in compendio; Rph = Lineamenti di filosofia del diritto, 1821. Analogamente, Rph I e Rph II rinviano ai corsi di lezioni sulla filosofia del diritto rispettivamente del 1817-18 e del 1818-19 (si veda il volume curato da K. H. Ilting, Klett-Cotta, Stuttgart, 1983); Rph III rinvia al corso di lezioni sulla filosofia del diritto del 1819-20 (a cura di D. Henrich, Suhrkamp, Frankfurt a. M. 1983). 

[6] W, XII, p. 106-7. 

[7] Ivi, p. 118-9. 

[8] Ivi, p. 131. 

[9] Ivi, p. 108-9. 

[10] Ivi, p. 105-6. 

[11] E, § 245. 

[12] W, XII, pp. 297-8. 

[13] E, § 245Z. 

[14] W, XII, p. 295. 

[15] W, VI, p. 453. 

[16] W, XII, p. 295. 

[17] E, § 245 Z. 

[18] Rph, § 127. 

[19] Rph III, p. 196. 

[20] Rph, § 127Z. 

[21] Ivi, § 67. 

[22] Rph II, § 36. 

[23] Rph III, 254. 

[24] MEW, XXIII, p. 280-281. 

[25] Ivi, p. 319, nota 196. 

[26] Rph I, § 167 A. 

[27] Rph, § 356. 

[28] V. I. Lenin, Quaderni filosofici, a cura di L. Colletti, Milano, Feltrinelli 1969, pp. 316-7. 

[29] MEW, III, p. 26. 

[30] MEW, XIII, p. 8. 

[31] MEW, III, р. 45. 

[32] MEW, III, p. 42. 

[33] E. Bloch, Karl Marx, der Tod und die Apokalypse, in J. Moltmann (a cura di), Religion im Erbe, Siebenstern Taschenbuch, München und Hamburg 1967, p. 24. 

[34] G. Lukács, Ontologia dell’essere sociale, cit., p. 601. 

[35] W, V, p. 45. 

[36] W, III, p. 483. 

[37] D. Losurdo, L’ipocondria dell’impolitico. La critica di Hegel ieri e oggi, Milella, Lecce 2001, cap. IV, § 3. 

[38] Cfr. K. Marx, F. Engels, Die großen Männer des Exils (1852), in MEW, Bd. VIII, pp. 245 e 275-76; K. Marx, Der achtzehnte Brumaire des Louis Bonaparte (1852), in MEW, Bd. VIII, p. 185; K. Marx, Der Ritter vom edelmütigen Bewußtsein (1854), in MEW, Bd. IX, pp. 493 e 496-7; F. Engels, Antwort an Herrn Paul Ernst (1890), in MEW, Bd. XXII, pp. 83-4. 

[39] Ph.G., pp. 902-3. 

[40] Rph, § 219A. 

[41] Ph.G., p. 902. 

[42] V. I. Lenin, Quaderni filosofici, cit., pp. 316-8. 

[43] W, XII, pp. 114 e 113. 

[44] MEW, VII, p. 288. 

[45] G. Lukács, Ontologia dell’essere sociale, cit., p. 3. 

[46] D. Losurdo, Hegel e la Germania. Filosofia e questione nazionale tra rivoluzione e reazione, Guerini e Associati, Milano 1997, cap. IV, S1. 

[47] G. Lukács, Storia e coscienza di classe, cit., p. 26. 

[48] Su ciò rinvio a Losurdo 2008, e in particolare alle pp. 66 (per quanto riguarda Gramsci e gli anarchici), 53, 68 e 117-22 (per quanto riguarda Stalin). 

[49] Arthur M. Schlesinger Jr, “Four Days with Fidel: A Havana Diary” (26 March 1992), The New York Review of Books. [web] 

[50] Deng Xiaoping 1992-5, vol. II, p. 196 e vol. III, pp. 166-7. 

[51] Deng Xiaoping 1992-5, vol. III, p. 287.