In 1993, shortly after the fall of the Soviet Union, Italian journalist and liberal politician Jas Gawronski interviewed Fidel Castro in Havana. In the course of the conversation Fidel Castro defends the legitimacy of socialism in China and Vietnam, explains why he has some sympathy for the United States, and offers a first-hand account of the Cuban Missile Crisis, shedding light on some of the tensions within the socialist world.
It was difficult to find a canonical version of this exchange. According to a translation provided by the University of Texas, the Argentinian newspaper Clarín omitted the discussion of the Cuban missile crisis. [1] Elsewhere, the New York Times censored the discussion of Vietnamese and Chinese socialism. [2] The closest thing to a complete account appears to be the original Italian publication in La Stampa, [3] but France’s Le Monde [4] and Germany’s Die Woche [5] have extra excerpts where Fidel Castro speaks positively of his meeting with the President of China. This all suggests that a complete transcript made the rounds but never got published. This version was reconstructed by piecing together overlapping excerpts, a ultimately rewarding process that I hope to write about sometime.
Thanks to Steven Manicastri for finding the Italian edition, and Nia Frome for her superb editing.
— Roderic Day
Gawronski: Comandante, a Cuba si continua a parlare di «rivoluzione» e di «socialismo» come se nel mondo attorno nulla fosse cambiato. Ma per lei queste parole hanno lo stesso significato di allora, di quando cominciò la sua avventura 35 anni fa?
Castro: No, non possono avere lo stesso significato e per due ragioni: prima di tutto noi avevamo un programma ambizioso che in gran parte è stato realizzato; e inoltre la situazione internazionale è cambiata in maniera determinante. Noi però persistiamo nei nostri ideali e nei nostri obiettivi politici e sociali.
Gawronski: Ma il fatto che il comunismo sia crollato nei Paesi in cui era al potere non la induce a pensare che forse qualcosa dovrà cambiare anche a Cuba?
Castro: Io direi che il socialismo si è autodistrutto, si è suicidato in Unione Sovietica, e noi non abbiamo nessuna ragione per suicidarci. E’ stata una grande sorpresa, sia per noi sia per voi occidentali.
Si sono distrutti tutti i valori sui quali si basava questo grande Paese che ha reso servizi importanti all’umanità, perché penso che l’impegno di Lenin e l’impegno della Rivoluzione di Ottobre siano stati un fatto straordinario nella storia. Il ruolo dell’Urss nella lotta al fascismo è stato decisivo, come anche nel processo di liberazione delle vecchie colonie.
Voglio dire: se il mondo è cambiato, è perché c’è stato un contributo determinante dell’Unione Sovietica. Io ritengo che l’Urss non doveva essere distrutta, ma perfezionata, che il socialismo doveva essere perfezionato e non distrutto. Qual è il risultato? Che oggi siamo rimasti con un mondo unipolare sotto l’egemonia degli Stati Uniti e gran parte di questo mondo ne sta soffrendo le conseguenze.
Gawronski: Ma come è potuto succedere tutto questo? Ritiene che Gorbaciov ne sia responsabile?
Castro: No. Gorbaciov parlava di socialismo e di ancor più socialismo, di perfezionare il socialismo: non ha mai parlato di distruzione del socialismo.
E quindi c’è da chiedersi quali furono i fattori che determinarono la distruzione del socialismo e come mai quello che Hitler non è riuscito a ottenere con centinaia di divisioni e decine di migliaia di aerei e carri armati, è successo senza guerra, senza divisioni blindate, senza aerei e carri armati. Ciò che Hitler non è riuscito a fare, lo hanno fatto gli stessi dirigenti sovietici.
Quale parte abbiano svolto in tutto questo i servizi segreti occidentali lo dirà un giorno la storia.
Gawronski: Ma nel momento attuale, quali ne sono le conseguenze per Cuba?
Castro: La sparizione del campo socialista ci ha causato un danno enorme, perché confrontati al blocco americano beneficiavamo del commercio con i Paesi socialisti che costituivano un pilastro per lo sviluppo della nostra economia. Ora il blocco rimane, il pilastro è venuto a mancare e noi siamo sottomessi a una delle prove più dure che si siano mai conosciute nell’epoca moderna.
Ciò nonostante non abbiamo vacillato nella decisione di andare avanti con le nostre idee. Tutto questo evidenzia quanto si calunniava Cuba quando si diceva che era un satellite dell’Unione Sovietica Abbiamo dimostrato che non eravamo un satellite, ma una stella che aveva una propria luce. Perché, scomparsa l’Unione Sovietica, noij abbiamo continuato a lottare, ab biamo proseguito il nostro cammino rivoluzionario, non ci siamo scoraggiati, non ci siamo arresi e stiamo affrontando questa dura prova con piena fiducia nel futuro.
Del resto, è ben vero che l’Unione Sovietica si è autodistrutta, però la Cina non si è autodistrutta e nemmeno il Vietnam. Si parla tanto del socialismo che è scomparso in Unione Sovietica, perché non si parla del socialismo cinese?
Gawronski: Per lei la Cina è un esempio da seguire?
Castro: E’ un esperimento da studiare. Gli stessi cinesi dicono che nessuno deve imitare automaticamente ciò che fanno gli altri. Loro stessi si autocriticano per aver applicato meccanicamente, nei primi anni, l’esperienza sovietica. Ma se vuole parlare di socialismo, non bisogna dimenticare quanto ha fatto d socialismo in Cina, il Paese della fame, della povertà, delle calamità, e oggi tutto questo non c’è più. Oggi la Cina alimenta, veste, cura e educa un miliardo e 200 milioni di abitanti.
Recentemente, il presidente cinese Jiang Zemin ha fatto una visita all’Avana. È una persona intelligente, istruita e comprensiva, mi ha fatto un’ottima impressione.
Gawronski: Ma la Cina, se è rimasta socialista politicamente, in campo economico cerca di non esserlo più. Cuba invece appare ancora tutta saldamente socialista. Non è difficile rimanere l’unico Paese socialista quando tutto attorno cambia?
Castro: Io credo che la Cina sia un Paese socialista, che il Vietnam sia un Paese socialista. E loro insistono che hanno introdotto tutte le riforme necessarie, proprio per stimolare lo sviluppo del Paese e continuare negli obiettivi del socialismo. Non esistono regimi o sistemi chimicamente puri.
A Cuba per esempio abbiamo molte forme di proprietà privata, abbiamo decine di migliaia di proprietari terrieri, che possiedono, in alcuni casi, fino a 45 ettari; in Europa sarebbero considerati dei latifondisti. Quasi tutti i cubani sono proprietari della casa in cui abitano, inoltre siamo più che aperti a investimenti stranieri. Ma tutto questo non toglie a Cuba il suo carattere socialista.
Quello che è certo è che non commetteremc mai l’errore di distruggere il Paese per fare un cosa nuova. Non commetteremo l’errore di sprofondare il nostro Paese nel caos, nell’anar chia, per risolvere i proble mi che abbiamo, perché questa sarebbe l’unica maniera per non risolverli mai.
Gawronski: Ecco, Comandante, per finire con questo argomento. Si può dire che a Cuba il socialismo sia sempre stato identificato con la sua persona. Le capita di pensare cosa succederà al socialismo quando lei non sarà più al potere?
Castro: Non mi sembra si possa identificare il socialismo con la mia persona: non l’ho inventato io!
E’ vero che quando ero studente universitario, e studiavo l’economia politica capitalista, mi convertii in un socialista utopista, perché non potevo capire le contraddizioni, le assurdità e le ingiustizie del capitalismo. Però è impossibile associare un sistema a un uomo. Certo, gli uomini possono svolgere un ruolo determinato in un momento della storia, però non mi è mai passato dalla mente che il socialismo possa essere associato a me: sarebbe un onore troppo grande che non voglio rubare ai teorici del socialismo!
Credo che il nostro popolo abbia un gran merito nel difendere le sue idee, nel difendere la sua indipendenza e la sua rivoluzione nelle condizioni tremende imposte dal blocco americano: è una prova di dignità come poche volte si sono viste nella storia.
L’uomo da solo non può nulla, può il popolo.
Gawronski: Passiamo alla fonte di tutti i suoi guai, gli Stati Uniti. Poco fa, prima di accendere il registratore per l’intervista, l’ho sentita parlare con una certa ammirazione, o almeno simpatia, per questo Paese. E’ un’impressione esatta?
Castro: Non ho mai smesso di riconoscere i meriti del popolo americano. Non bisogna dimenticare che gli Stati Uniti furono una colonia che lottò duramente per la sua indipendenza e la raggiunse. Poi compilarono la Dichiarazione d’Indipendenza e la prima Costituzione moderna.
Certo, nell’ambito di un concetto relativo di democrazia e di libertà: benché la Dichiarazione d’Indipendenza stabilisse che tutti gli uomini nascono liberi e uguali, e a tutti il Creatore concede determinati diritti fra i quali la libertà, la schiavitù si mantenne negli Stati Uniti per quasi 100 anni. Per dire che non sempre le dichiarazioni corrispondono, nella pratica, ai fatti.
Io, quando mi difesi nel processo del Moncada, quando difesi il diritto all’insurrezione contro la tirannide, utilizzai alcuni dei concetti della Dichiarazione americana, che avevo letto quando ero studente: è molto bella.
Ho sempre provato simpatia e ammirazione per Lincoln; sin da molto giovane capii il ruolo di Roosevelt come statista in periodi di crisi, di grandi difficoltà, il suo ruolo nella lotta contro il fascismo: ammiravo il fatto che pur essendo una persona con limitazioni fisiche fosse riuscito a fare tutto quello che ha fatto. Prendiamo il caso di Kennedy: fu lui a decretare il blocco contro Cuba, presidente quando si organizzarono molti piani per assassinarmi, ma io non gli porto rancore. Sono pronto ad ammettere che era un individuo brillante, intelligente e aveva meriti personali.
Questo per dire che mai mi sono lasciato trascinare dall’odio e dal risentimento, e non solo io, ma tutto il popolo cubano tratta sempre con rispetto il cittadino americano. Noi non abbiamo seminato fanatismo, abbiamo invece sviluppato tra i nostri compatrioti l’abitudine a pensare, a ragionare: non diciamo “credi”, ma “pensa”, “analizza”, “medita”. Noi non abbiamo mai ritenuto colpevole il popolo americano del blocco e delle aggressioni contro Cuba, malgrado sia abbastanza manipolato dai mezzi di comunicazione di massa, ma abbiamo visto nel popolo americano una vittima di queste manipolazioni e non lo rendiamo responsabile della politica aggressiva degli Stati Uniti nei confronti di Cuba. Ci sono molti posti in America Latina dove gli americani vanno e vengono trattati male, con odio, che è una conseguenza delle frustrazioni. Noi abbiamo la psicologia di un popolo libero, che non ha bisogno di sviluppare fanatismo o sciovinismo o odio verso altri popoli.
Gawronski: Prima parlava di attentati: quanti ne ha subiti nella sua vita?
Castro: Se ci fosse una disciplina olimpica in questo campo, avrei certamente conquistato la medaglia d’oro!
Al Senato di Washington hanno riconosciuto l’esistenza di molti di questi piani. Negli Stati Uniti non solo organizzavano piani di attentati, diretti dalla Cia, ma sviluppavano tutta una guerra psicologica, aiutavano qualsiasi nemico della rivoluzione e sempre lo orientavano verso la realizzazione di attentati per eliminarmi fisicamente. Ho subito centinaia di attentati, alcuni organizzati direttamente dalla Cia, altri ispirati da loro, coordinati da loro, pagati da loro. Così ho avuto il privilegio di vivere per più di 30 anni e sono ancora vivo. Qualche volta sono stati molto vicini all’eliminarmi, più di una volta. Ma io non ci penso molto, anzi, quasi mi ci diverto.
Gawronski: Lei, Comandante, da quando è al potere ha avuto a che fare con ben otto presidenti americani. Ora c’è Clinton, che è il primo più giovane di lei. Qualcosa cambia; e cambia forse anche nei rapporti tra Stati Uniti e Cuba? C’è qualche possibihtà di un miglioramiento? Ci sono iniziative in corso?
Castro: Guardi, i presidenti negli Stati Uniti sono schiavi di molte cose e fra queste delle campagne elettorali. Nel corso delle campagne elettorali si fanno dichiarazioni e si assumono impegni e Clinton, disgraziatamente, ha fatto delle dichiarazioni contrarie a Cuba, è sceso a patti con gente come Torricelli che aveva presentato nella fase finale del governo Bush la famosa legge per rendere più rigoroso e più spietato il blocco contro Cuba. Ma ci sono altri fattori che influiscono sui Presidenti.
Tutti i Presidenti, nel primo mandato, passano il tempo a pensare al secondo, come obiettivo principale. Nel primo periodo sono molto cauti, prudenti nel prendere nuove iniziative. Per tutte queste ragioni, al momento non ci sono negoziati per migliorare i rapporti, se non per questioni secondarie, come i problemi migratori. Quello che posso affermare è che Clinton non è un Presidente guerrafondaio, è un uomo di pace, un uomo che vuole fare delle cose per il popolo americano.
Le devo confessare che mi è molto difficile parlare di Clinton, perché se parlo bene di lui i suoi amici si preoccupano. E i nemici di Cuba, in un momento in cui la popolarità di Clinton subì un calo, dicevano che l’unico che difendeva Clinton era Castro. Lo dicevano con la peggiore delle intenzioni, con l’intenzione di recar danno a Clinton.
Io non difendo Clinton, non sono né suo amico, né suo nemico. Cerco solo di fare un’analisi per giungere ad un giudizio obiettivo sulla sua personalità. E ho osservato che è molto sensibile alle pressioni della destra, degli elementi più conservatori; e a volte prende ima posizione e poi la cambia in funzione delle pressioni. Gli succede quello che succedeva a Kennedy all’inizio della sua presidenza. Ma credo che senz’altro stia acquistando esperienza.
La vita insegna. Kennedy apprese molto dal fallito sbarco a Playa Giron, un piano che ereditò da Eisenhower e Nixon, e poi capì che era stato un errore sottostimare Cuba, sottostimare la rivoluzione e realizzare quella spedizione mercenaria contro Cuba. Anche Clinton ha ricevuto delle eredità da Bush, per esempio la Somalia. Ma anche lì un popolo affamato, disorganizzato, è stato capace di opporsi all’invasione e penso che Clinton ne abbia tratto una lezione: però non ha reagito con superbia, con nuove aggressioni, con nuovi attacchi. Ha reagito con coraggio e sangue freddo e ha elaborato una formula politica per arrivare a una soluzione negoziata e poter ritirare i suoi soldati. Altri Presidenti avrebbero reagito con arroganza e si sarebbero imbarcati in un altro Vietnam.
Gawronski: Lei ha parlato di Playa Giron, della Baia dei Porci, l’episodio che precedette la crisi dei missili dell’ottobre ‘62. E’ vero che chiese a Krusciov di lanciare un attacco nucleare preventivo contro gli Usa?
Castro: Era una situazione estremamente tesa, attendevamo un’invasione americana da un momento all’altro e io, dopo aver preso tutte le misure necessarie per la difesa del nostro Paese, pensai di mandare una lettera a Krusciov, gliene dò poi una copia, un messaggio di stimolo, di incoraggiamento: avevo paura che potesse vacillare e la mia intenzione era cercare di convincerlo alla fermezza, a resistere, a non lasciarsi demoralizzare dalla situazione che si era creata. Quel messaggio lo trasmisi personalmente all’ambasciatore sovietico all’alba del 26 ottobre. Non c’era un interprete, l’ambasciatore non conosceva molto bene lo spagnolo e io gli ho ripetuto molte volte ogni parola, ogni frase, ogni idea, lui scriveva, ma non so quello che esattamente trasmise a Krusciov.
Gawronski: E Krusciov rifiutò?
Castro: Krusciov non ebbe il tempo di rispondere perché subito la crisi arrivò al suo punto più critico, quando da una base di missili terra-aria sovietica che si trovava nella parte orientale di Cuba venne abbattuto, senza che si sia mai chiarito bene questo episodio, un aereo americano U-2. Fatto sta che Krusciov, qualche giorno dopo, mi inviò una lettera, di cui anche le dò copia, in cui si lamentava che io, nel bel mezzo della crisi, gli avessi proposto di lanciare un attacco nucleare, D che era assolutamente falso: questo non era il contenuto del mio messaggio, ma va’ a sapere come lo interpretò l’ambasciatore. Allora io gli inviai un’altra lettera, e anche di questa le dò copia, una lettera energica, in cui, con molta dignità, dicevo che le accuse rivoltemi non erano giuste e gli spiegavo il concetto del mio primo messaggio, che era questo: se gli Stati Uniti attaccano, se scoppia la guerra, non permetta che l’Urss sia vittima di un primo colpo…
Gawronski: …un colpo nucleare?
Castro: Sì. E sono convinto che la mia posizione era assolutamente giusta: se il nemico scatenava la guerra, non bisognava dargli la possibilità di lanciare il primo colpo.
Gawronski: Ma scusi, Comandante, che bisogno avevano gli Stati Uniti di utilizzare l’arma nucleare contro Cuba?
Castro: Il fatto è che a Cuba c’erano armi nucleari strategiche, c’erano armi nucleari tattiche; se si scatenava una guerra e un bombardamento contro Cuba, la possibile distruzione di tutti quei missili era equivalente a un attacco nucleare. Se lei dispone di decine di missili, se dispone di vari megatoni di cariche nucleari, mi dica lei, quale esercito che disponga di tali armi si lascerebbe distruggere senza utilizzarle?
Era una situazione molto delicata. Io mi dicevo: non voglio la guerra nucleare, però ero convinto che in caso di invasione si sarebbe scatenato quel tipo di guerra. La filosofia dei sovietici, la filosofia di Krusciov, che me lo ha ripetuto molte volte, era che qualunque guerra tra Stati Uniti e Unione Sovietica si sarebbe trasformata in guerra nucleare. Questa era la dottrina militare sovietica. Noi sapevamo bene che se scoppiava la guerra saremmo scomparsi dalla Terra, ma non per questo eravamo disposti a cedere, lo capisce?
Io non volevo che succedesse quello che successe a Hitler, quando Stalin fece la parte dello struzzo: quando gli dicevano che c’erano milioni di soldati tedeschi concentrati sulla frontiera sovietica, replicava che si trattava di una provocazione degli inglesi e dell’Occidente per coinvolgerlo nella guerra, e un giorno all’alba, al levar del sole, l’Unione Sovietica fu attaccata da milioni di uomini, i suoi aerei furono distrutti a terra e milioni dei suoi soldati morirono nei primi mesi. [6]
Gawronski: Se mi permette, facciamo un passo indietro. Come si è arrivati alla decisione sovietica di installare i missili a Cuba?
Castro: Furono loro ad avanzare questa proposta.
Premetto che avevamo grande fiducia in loro, nel Paese che sconfisse Hitler, e credevamo che sapessero quello che facevano. Certo anche noi avevamo le nostre idee e le presentavamo, li consigliavamo, però le decisioni le lasciavamo nelle loro mani.
Un giorno, dopo la Baia dei Porci, i sovietici ci dissero di avere informazioni secondo cui Cuba stava correndo un grande pericolo e ci chiesero: “Cosa credete che si possa fare per evitare un’aggressione degli Stati Uniti?”. Noi rispondemmo: “Se gli Stati Uniti sapessero che un’aggressione a Cuba equivale a una guerra contro l’Unione Sovietica, certamente questo costituirebbe un freno a un loro intervento”. A questo punto loro dissero — e a tale scopo inviarono una delegazione ad alto livello — che non ci si poteva limitare a una dichiarazione, ma che bisognava dimostrarlo con i fatti. “Quali?” chiesi io. Ed è a quel punto che proposero per la prima volta i missili. Io risposi che dovevo consultarmi con i miei compagni.
Nella riunione della nostra direzione fummo favorevoli all’installazione dei missili, per due ragioni: prima di tutto perché rafforzavano strategicamente l’Urss e questo era una garanzia anche per noi; e poi, perché se noi ci aspettavamo che l’Unione Sovietica difendesse i nostri interessi, dovevamo essere anche disposti a correre rischi per lei. Io ho sempre disprezzato chi attende che gli altri facciano qualcosa per lui, ma non è disposto a fare qualcosa per l’altro. Così stringemmo un patto militare e noi eravamo dell’idea di renderlo pubblico, perché eravamo convinti di fare qualcosa di legale, di cui avevamo pieno diritto, e non c’era nessuna ragione per nasconderlo.
La tattica seguita da Krusciov in questo fu sbagliata. Tant’è che venne fuori lo scandalo: è difficile trasportare e installare tanto materiale bellico senza che nessuno se ne accorga. E alla fine gli unici a continuare a mantenere il segreto eravamo noi che ne eravamo parte, mentre tutto il mondo cominciava già a parlare dei missili a Cuba. Infine, scoppia la crisi.
E qui Krusciov compie un secondo errore e si lascia trascinare in una discussione sul carattere di quelle armi. Negli Stati Uniti si comincia a parlare di armi offensive e Krusciov, partendo dalla teoria che le armi non erano né offensive né difensive, ma questo dipendeva dall’intenzione di chi le usava, affermò che quelle erano armi difensive. Però Kennedy, quando gli chiedeva se erano armi offensive, voleva sapere se erano armi strategiche, nucleari. Krusciov negò decisamente. Non solo Krusciov, ma anche Gromyko, in un incontro con Kennedy qualche giorno prima della crisi.
Io credo che prima che nascesse lo scandalo avremmo dovuto, nella marnerà più naturale al mondo, dar pubblicità all’accordo che avevamo raggiunto con l’Urss, visto che non stavamo facendo nulla di illegale: si trattava di un atto di assoluta e legittima difesa. Ma Krusciov ingannò Kennedy e questo permise al Presidente americano di guadagnarsi una statura morale e di presentarsi al mondo come l’uomo che era stato ingannato da Krusciov, che di nascosto aveva installato i missili a Cuba.
Gawronski: C’è ancora un punto che vorrei chiarire con lei. Dopo la fase più acuta della crisi, i suoi rapporti con Krusciov peggiorarono molto. Ci può spiegare come mai?
Castro: Fu al momento del ritiro dei missili. Noi non eravamo contrari a questa soluzione, però volevamo delle garanzie per Cuba. Krusciov invece prese la decisione senza consultarci. E fu un errore. Sarebbe bastato che lui avesse detto: “Siamo disposti a ritirare i missili a patto di garanzie soddisfacenti per Cuba”. Quando inviai a Krusciov un messaggio in tal senso, i fatti stavano precipitando, lui in pratica si era già messo d’accordo con Kennedy.
E così Krusciov ritira i missili e a noi ci lascia con il blocco economico, la base navale di Guantanamo, i continui attacchi armati, attacchi pirati alle nostre coste; io dico che, in quei momenti in cui il mondo si sentì rabbrividire per il pericolo di una guerra nucleare, gli Stati Uniti non avrebbero potuto rifiutare quelle condizioni minime che noi avremmo posto se fossimo stati consultati. La crisi si sarebbe risolta definitivamente e in maniera decorosa e noi non avremmo avuto contrasti con i sovietici.
Gawronski: Comandante, per concludere, mi tolga una curiosità. Perché porta sempre quella uniforme da guerrigliero? Oramai i tempi eroici della Sierra Maestra sono finiti.
Castro: E’ il mio vestito, l’ho portato tutta la vita, è comodo, è semplice, costa poco e non fa fuori moda. Ne ho anche un altro tipo, di gala, con la cravatta. Ma scusi, permetta a me di rivolgerle una domanda. Lei, al Papa glielo ha chiesto perché porta sempre quel vestito bianco?
[1] 2 January 1994. “Exclusive” Interview With Castro. Clarín. Available as a translation from the archives from the University of Texas. [web]
[2] 21 December 1993. For Castro, New Era and Old Clothes. New York Times. [web]
[3] 21 December 1993. Castro: La vera storia dei missili a Cuba. La Stampa. [web]
[4] 22 December 1993. Un entretien avec le président cubain Fidel Castro. Le Monde. [web]
[5] 22 December 1993, Castro Views U.S. Administration, Socialism. Die Woche. Available as a translation from the archives from the University of Texas. [web]
[6] This account of events, portraying Stalin as hubristic and inept, is heavily indebted to the denunciations in Khrushchev’s infamous “Secret Speech” from 1956. For a modern and well-cited challenge to this narrative see Chapter 1 of Domenico Losurdo’s “Stalin: The History and Critique of a Black Legend” (2008). [web]