Antonio Gramsci

Il movimento e il fine (1932)

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Q9 §6, §7, §23.


È possibile mantenere un movimento senza che si abbia una previsione del fine? Il principio di Bernstein secondo cui il movimento è tutto e il fine è nulla, sotto un’apparenza di interpretazione «ortodossa» della dialettica, nasconde una concezione puramente meccanicistica del movimento, per cui le forze umane sono considerate come passive e non consapevoli, come elementi non dissimili dalle cose materiali.

Ciò è interessante notare perché il Bernstein ha cercato le sue armi nel revisionismo idealistico, che avrebbe dovuto portarlo invece a valutate l’intervento degli uomini come decisivo nello svolgimento storico. Ma se si analizza a fondo, si vede che nel Bernstein l’intervento umano è valutato, sia pure implicitamente, ma in modo unilaterale, poiché è considerato come «tesi» ma non come «antitesi»; efficiente come tesi, ossia nel momento della resistenza e della conservazione, è rigettato come antitesi, ossia come iniziativa e come spinta progressiva. Possono esistere «fini» per la resistenza e la conservazione, non per il progresso e l’iniziativa.

La passività è la conseguenza di tale concezione, poiché invece proprio l’antitesi (che presuppone il risveglio di forze ancora latenti e addormentate) ha bisogno di fini, immediati e mediati, per il movimento. Senza la prospettiva dei fini concreti, non si riesce a mantenere il movimento.


Si potrebbe trattare in forma di apologo. Il concetto di male minore è dei più relativi. C’è sempre un male ancora minore di quello precedentemente minore e in confronto di un pericolo maggiore in confronto di quello precedentemente maggiore. Ogni male maggiore diventa minore in confronto di un altro ancor maggiore e così all’infinito.

Si tratta dunque niente altro che della forma che assume il processo di adattamento a un movimento regressivo, di cui una forza efficiente conduce lo svolgimento, mentre la forza antitetica è decisa a capitolare progressivamente, a piccole tappe, e non d’un solo colpo, ciò che gioverebbe, per l’effetto psicologico condensato, a far nascere una forza concorrente attiva, o a rinforzarla se già esistesse.

Poiché è giusto il principio che i paesi più avanzati in un certo svolgimento sono l’immagine di ciò che avverrà negli altri paesi dove il movimento è agli inizi, la comparazione è d’obbligo.


È da vedere quanto ci sia di giusto nella tendenza contro l’individualismo e quanto di erroneo e pericoloso. Atteggiamento contraddittorio necessariamente. Due aspetti, negativo e positivo, dell’individualismo. Quistione quindi da porre storicamente e non astrattamente, schematicamente. La quistione si pone diversamente nei paesi che hanno avuto la riforma o che sono stati paralizzati dalla controriforma. L’uomo‑collettivo o conformismo imposto e l’uomo‑collettivo o conformismo proposto (ma si può chiamare più conformismo allora?).

Coscienza critica non può nascere senza una rottura del conformismo cattolico o autoritario e quindi senza un fiorire della individualità: il rapporto tra l’uomo e la realtà deve essere diretto o attraverso una casta sacerdotale (come il rapporto tra uomo e dio nel cattolicismo? che è poi una metafora del rapporto tra l’uomo e la realtà)? Lotta contro l’individualismo è contro un determinato individualismo, con un determinato contenuto sociale, e precisamente contro l’individualismo economico in un periodo in cui esso è diventato anacronistico e antistorico (non dimenticare però che esso è stato necessario storicamente e fu una fase dello svolgimento progressivo).

Che si lotti per distruggere un conformismo autoritario, divenuto retrivo e ingombrante, e attraverso una fase di sviluppo di individualità e personalità critica si giunga all’uomo‑collettivo è una concezione dialettica difficile da comprendere per le mentalità schematiche e astratte. Come è difficile da comprendere che si sostenga che attraverso la distruzione di una macchina statale si giunga a crearne un’altra più forte e complessa ecc.