Domenico Losurdo
Post originale: marx21.it

Il sionismo e la tragedia del popolo palestinese (2001)

31 minuti | English Italiano

Pubblicato in «L’Ernesto. Rivista comunista» del luglio-agosto 2001, pp. 67-72.


Indice

Gli “schiavi inferociti” e la predica della “complessità”

A Durban, in occasione della Conferenza internazionale sul razzismo promossa dall’Onu, tremila organizzazioni non governative provenienti da tutto il mondo hanno condannato con parole di fuoco Israele per l’oppressione nazionale e la discriminazione razziale inflitte ai palestinesi, per la ferocia di una repressione militare che non si ferma neppure dinanzi ad “atti di genocidio”. Più timide si sono rivelate le delegazioni ufficiali. La pervicace complicità dell’Unione Europea con Israele ha tolto al documento finale molto della sua forza. E, tuttavia, forse per la prima volta nella storia, l’Occidente capitalista e imperialista è stato costretto in modo così solenne sul banco degli imputati, è stato messo con forza dinanzi ad alcune pagine della sua storia costantemente rimosse, dalla tratta degli schiavi neri al martirio del popolo palestinese. La fuga indecorosa delle delegazioni americana e israeliana ha suggellato ulteriormente l’isolamento di coloro che oggi sono i responsabili di crimini orribili contro l’umanità e i peggiori nemici dei diritti dell’uomo.

È un risultato di straordinaria importanza. E, tuttavia, persino a sinistra non sono mancati coloro che hanno storto la bocca.

Impancandosi a Maestri nei confronti dei palestinesi, li hanno invitati a moderare i toni: sì, la critica a Israele può essere giusta, ma perché tirare in ballo il sionismo e perché accusarlo addirittura di razzismo? A suo tempo Fichte, facendosi beffe della faciloneria di certi discorsi relativi agli “eccessi” della rivoluzione francese, ha espresso il suo disprezzo per coloro che, standosene al sicuro e continuando a godere tutti gli agi della vita, pretendono di predicare la morale agli “schiavi inferociti” e decisi a scuotersi di dosso l’oppressione. Non contenti della lezione di morale, gli odierni Maestri del popolo palestinese intendono impartirgli anche una lezione di epistemologia: mettere in stato d’accusa il sionismo in quanto tale — essi sentenziano — significa perdere di vista la “complessità” di questo movimento politico, caratterizzato dalla presenza al suo interno di correnti tra loro assai diverse, di destra, di sinistra e persino di una sinistra di orientamento socialista e rivoluzionario.

In realtà, se si fosse seguita in modo coerente la metodologia qui suggerita, non è soltanto sul sionismo che saremmo costretti a tacere. Nel 1915, l’intervento dell’Italia nel primo conflitto mondiale da alcuni circoli è stato rivendicato con parole d’ordine esplicitamente espansionistiche e imperialistiche, da altri come un contributo alla causa del trionfo della democrazia e della pace a livello mondiale. Ma, almeno per i comunisti, non dovrebbero esserci dubbi sul fatto che si trattava di una guerra imperialistica a tutti gli effetti, nonostante le buone intenzioni e la sincerità democratica e persino rivoluzionaria dei seguaci dell‘“interventismo democratico”.

Facciamo un altro esempio. Non c’è dubbio che il colonialismo in certi casi ha assunto un carattere esplicitamente sterminazionista (si pensi in particolare al nazismo, ma anche, già prima, alla cancellazione dalla faccia della terra degli aborigeni australiani e di altri gruppi etnici), mentre altre volte si è fermato alle soglie del genocidio. Alla fine dell’Ottocento l’espansione coloniale dell’Occidente in Africa si è sviluppata agitando la parola d’ordine della liberazione degli schiavi neri, mentre alcuni decenni più tardi Hitler promuove la colonizzazione dell’Europa orientale con l’obiettivo dichiarato di procurarsi la massa di schiavi di cui ha bisogno l’ariana “razza dei signori”. Se il Terzo Reich, nel corso della sua marcia espansionistica, inneggia alle virtù purificatrici e rigeneratrici della guerra, in certi momenti della sua storia (in occasione della sanguinaria spedizione congiunta delle grandi potenze per la repressione della rivolta dei Boxer in Cina), il colonialismo non ha esitato ad auto-celebrarsi come un contributo decisivo alla causa della pace perpetua. [1] Sarebbe errato ignorare la “complessità” del fenomeno storico qui indagato e le sue differenze interne, ma esse tuttavia non possono impedirci di pronunciare un giudizio sul colonialismo in quanto tale: pur nel carattere molteplice e variegato delle sue manifestazioni, il colonialismo è sinonimo di saccheggio e di sfruttamento, e ha comportato la guerra, l’aggressione e l’imposizione su larga scala di forme di lavoro coatto a danno delle popolazioni coloniali, anche quando ha dichiarato di essere mosso dall’intento umanitario di promuovere la realizzazione della pace perpetua e l’abolizione della schiavitù, e anche quando alcuni esponenti politici o alcuni ideologi delle grandi potenze dell’Occidente hanno sinceramente creduto a tali buone intenzioni!

Sionismo e colonialismo

Non ho scelto a caso l’esempio del colonialismo. Una domanda subito s’impone: c’è qualche rapporto tra sionismo e colonialismo? Non c’è dubbio che a caratterizzare il sionismo, pur nella molteplicità delle sue componenti, è una parola d’ordine inequivocabile: “una terra senza popolo per un popolo senza terra”! Siamo in presenza dell’ideologia classica della tradizione coloniale, che ha sempre considerato res nullius, terra di nessuno, i territori conquistati o concupiti e ha sempre avuto la tendenza a ridurre ad una grandezza trascurabile le popolazioni indigene. Oltre che l’ideologia, dalla tradizione coloniale il sionismo mutua le pratiche di discriminazione e oppressione. Ben prima della fondazione dello Stato di Israele, già nel corso della seconda guerra mondiale, mentre si insediano in Palestina i sionisti programmano la deportazione degli arabi. “Deve essere chiaro che non c’è posto per tutti e due i popoli in questo paese”; “non c’è posto per compromessi su questo punto”; è necessario “trasferire gli arabi nei paesi confinanti, trasferirli tutti”: inequivocabile è il programma enunciato alla fine del 1940 da un dirigente di primo piano del movimento sionista. Su ciò richiama l’attenzione Edward W. Said; [2] e se l’eminente intellettuale palestinese dovesse risultare sospetto, si tenga presente che, nell’ottobre 1945, Hannah Arendt condanna con forza i piani — nel frattempo, dopo la fine della Seconda guerra mondiale, divenuti assai concreti — di “trasferimento degli arabi di Palestina in Iraq”. [3]

Qui, con un grazioso eufemismo, si parla “trasferimento” invece che di deportazione. Ma, tre anni dopo, la Arendt descrive in modo preciso la violenza terroristica che si scatena contro la popolazione araba. Ecco la sorte riservata a Deir Yassin:

“Questo villaggio isolato e circondato da territorio ebraico non aveva partecipato alla guerra e aveva persino vietato l’accesso a bande arabe che volevano utilizzare il villaggio come punto d’appoggio. Il 9 aprile [1948], a quanto riferisce il New York Times, bande terroristiche [sioniste] attaccano il villaggio, che nel corso dei combattimenti non rappresentava alcun obiettivo militare, e uccidono la maggioranza della sua popolazione — 240 uomini, donne e bambini; ne lasciano in vita un paio per farli sfilare come prigionieri in Gerusalemme”.

Nonostante l’indignazione della larga maggioranza della popolazione ebraica,

“i terroristi sono orgogliosi del massacro, provvedono a dargli ampia pubblicità e invitano tutti i corrispondenti stranieri presenti nel paese a prendere visione dei mucchi di cadaveri e della generale devastazione in Deir Yassin”. [4]

Non c’è dubbio: non tutte le componenti e i singoli membri del movimento sionista si comportano in questo modo, e comunque a promuovere la fondazione dello Stato di Israele sono anche sionisti con una lunga storia di sinistra alle spalle; ma nessun comunista e nessun democratico penserebbe di giustificare il comportamento della socialdemocrazia tedesca, in occasione dello scoppio e nel corso della prima guerra mondiale, con l’argomento delle grandi lotte popolari condotte da questo partito nel passato e del prestigio internazionale in tal modo da esso accumulato.

Del resto diamo uno sguardo più da vicino alla sinistra sionista, affidandoci all’analisi e alla testimonianza sempre della Arendt. Anche lei fa riferimento al “movimento nazionale ebraico social-rivoluzionario”, ma ecco come lo caratterizza: si tratta di circoli certo impegnati nel perseguimento di esperimenti collettivistici e di una “rigorosa realizzazione della giustizia sociale all’interno della loro piccola cerchia”, ma per il resto pronti ad appoggiare gli obiettivi “sciovinisti”. Nel complesso siamo in presenza di un “conglomerato assolutamente paradossale di approccio radicale e riforme sociali rivoluzionarie in politica interna, e di metodi antiquati e del tutto reazionari in politica estera, e cioè nel campo delle relazioni tra ebrei e altri popoli e nazioni”. [5] Nel corso della sua storia, il movimento comunista si è sempre rifiutato di considerare di sinistra questo “conglomerato”, anzi l’ha sempre bollato col nome di socialsciovinismo. È così poco di sinistra questo intreccio di espansionismo (a danno dei popoli coloniali) e di spirito comunitario (chiamato a cementare il popolo dominante impegnato in una difficile prova di guerra), che una grande personalità ebraica vede proprio in esso uno dei motivi di rassomiglianza addirittura tra sionismo e nazismo. [6]

Sionismo e razzismo

E giungiamo così al punto cruciale. Ai bacchettoni che si scandalizzano per le accuse di razzismo rivolte al sionismo, si può contrapporre l’esempio di laicità e di coraggio intellettuale di Victor Klemperer appena citato. Mentre è costretto a nascondersi per sfuggire alla persecuzione e alla “soluzione finale” che il Terzo Reich ha riservato agli ebrei, egli non esita a parlare, a proposito degli scritti e dell’ideologia di Herzl, di “straordinaria parentela con l’hitlerismo”, di “profonda comunanza con l’hitlerismo”. [7] Forse si può giungere ad una conclusione ancora più radicale: “La dottrina della razza di Herzl è la fonte dei nazisti; sono essi a copiare il sionismo, non viceversa”. [8] Ad accomunare nazismo e sionismo è comunque un “enfatico americanismo”, e cioè il mito di un Far West da colonizzare, di un territorio vergine che il Terzo Reich cerca in Europa orientale e il sionismo in Palestina. Non è lo stesso Herzl a rinviare in modo esplicito al modello del Far West? L’unica precisazione è che i sionisti intendono procedere ad una “presa di possesso della terra” che non lasci nulla all’improvvisazione. [9]

A conclusioni non molto diverse da quelle di Klemperer giunge Hannah Arendt. A stimolare la strage di Deir Yassin è stata una miscela esplosiva di “ultra-nazionalismo”, “misticismo religioso” e pretesa di “superiorità razziale.” [10] Assumendo “il linguaggio dei nazionalisti più radicali”, il sionismo si configura in modo esplicito come “pan-semitismo”; [11] ma perché mai il pan-semitismo dovrebbe essere migliore del pan-germanesimo? Herzl è ossessionato dalla preoccupazione di mantener ferma l’identità culturale ed etnica dell’ebraismo: non dichiara lui stesso che il sionismo dovrà ricercare i suoi “alleati” e i suoi “amici più devoti” tra gli antisemiti, essi stessi desiderosi di evitare contaminazioni tra popoli diversi nella loro anima e nella loro essenza? [12] A partire da ciò la Arendt giunge ad una conclusione radicale: il sionismo “non è altro che l’accettazione acritica del nazionalismo di ispirazione tedesca”. Questo assimila le nazioni a “organismi biologici super umani”; ma anche per Herzl “non esistevano altro che aggregati sempre uguali di persone, visti come organismi biologici misteriosamente dotati di vita eterna”. [13] E, di nuovo, col rinvio al “nazionalismo di ispirazione tedesca”, carico di motivi “biologici”, siamo ricondotti al nazismo o, per lo meno, all’ideologia successivamente ereditata e radicalizzata dal Terzo Reich.

Ho utilizzato finora gli articoli e gli interventi della Arendt precedenti la svolta anticomunista e antimarxista in lei intervenuta con lo scoppio della guerra fredda. Ma è interessante notare che, ancora nel 1963, la filosofa non ha smarrito nulla della sua carica dissacratrice. In occasione del processo Eichmann, “il Pubblico ministero denunziò le infami leggi di Norimberga del 1935, che avevano proibito i matrimoni misti e i rapporti sessuali tra ebrei e tedeschi”. Epperò, nel momento stesso in cui viene pronunciata questa requisitoria, in Israele vige una legislazione analoga sicché “un ebreo non può sposare un non ebreo”. E non è tutto. La “legge rabbinica” comporta tutta una serie di discriminazioni su base etnica: “I figli nati dai matrimoni misti sono, per legge, bastardi (i figli nati da genitori ebrei fuori dal vincolo matrimoniale vengono legittimati), e se uno ha per caso una madre non ebrea, non può sposarsi e non ha diritto al funerale”. Soprattutto, la Arendt richiama l’attenzione sull’entusiasmo a suo tempo suscitato nel criminale nazista dalle tesi espresse da Herzl nel suo libro Lo Stato ebraico: “Dopo la lettura di questo famoso classico sionista, Eichmann aderì prontamente e per sempre alle idee sioniste”. [14]

Forse, in questo caso, in Klemperer e nella stessa Arendt, oltre che un’esasperazione polemica, c’è un reale eccesso di semplificazione: è difficile attribuire al sionismo le ambizioni di dominio planetario e di inversione radicale in senso reazionario del corso della storia che svolgono un ruolo centrale nell’ideologia e nel programma politico di Hitler; inoltre, non c’è equivalenza tra razzismo e contro-razzismo (cioè razzismo di reazione) e nel sionismo risultano indissolubilmente intrecciati l’uno e l’altro. Più equilibrata si rivela un’altra eminente personalità ebraica, lo storico George L. Mosse, il quale, paraltro, richiama anche lui l’attenzione sul fatto che il sionismo pensa la “nazione ebraica” nei termini naturalistici propagandati dai torbidi “ideali neogermanici”, che si diffondono a partire dalla fine dell’Ottocento, svolgendo un ruolo non trascurabile nel processo di preparazione ideologica del Terzo Reich. [15]

Su ciò bisognerà continuare a ragionare e a discutere, ma le grida di scandalo sollevatesi in occasione della Conferenza di Durban vogliono per l’appunto impedire il ragionamento e la discussione.

Epperò, almeno un punto risulta già ora sufficientemente chiaro. Sullo sbocco concreto del sionismo, sui rapporti sociali e “razziali” vigenti nell’odierna Israele, diamo la parola a ebrei di orientamento democratico, precisando che non si tratta in alcun modo di estremisti, dato che pubblicano i loro interventi sull’International Herald Tribune. Ebbene, qui possiamo leggere che, se pure è una democrazia, Israele è una “democrazia castale secondo il modello dell’antica Atene” (che a suo fondamento aveva la schiavitù dei barbari), ovvero secondo il modello del “Sud degli Usa” negli anni della discriminazione razziale a danno dei neri. Il quadro che presenta Israele è chiaro: “La sua minoranza di Arabi israeliani vota ma ha uno statuto di seconda classe sotto molti altri aspetti. Gli Arabi che essa governa nella West Bank occupata non votano e sono privi quasi di ogni diritto”. [16] La pratica della discriminazione a danno dei palestinesi va di pari passo con la loro “de-umanizzazione”. [17]

È un dato di fatto: nei territori in un modo o nell’altro controllati da Israele, l’accesso alla terra, all’istruzione, all’acqua, la libertà di movimento, il godimento dei diritti civili più elementari, tutto dipende dall’appartenenza etnica. Solo se si è palestinesi si corre il rischio di vedersi distrutta la proprietà, di essere deportato, di essere torturato (anche se minorenne), di essere consegnato agli squadroni della morte: e tutto ciò non in base ad una sentenza della magistratura, ma in base all’arbitrio delle autorità di polizia e militari, ovvero alla decisione sovrana del primo ministro. Sharon “parla ancora con orgoglio della sua dura campagna contro i militanti palestinesi a Gaza 30 anni fa, quando distruggeva col bulldozer le case e deportava i genitori degli adolescenti impegnati nella protesta”. [18] Dunque, come ci informa la stampa americana, si può essere deportati non solo in base ad un sospetto, ma anche a partire dai legami di parentela con un ragazzino sospettato di aver lanciato un sasso contro un soldato israeliano. E si corre questo rischio sempre e soltanto se si è palestinesi. Non è razzismo tutto ciò?

D’altro canto, mentre respinge con orrore la richiesta dei profughi palestinesi di ritorno sulla terra dalla quale sono stati espulsi con la violenza, Israele invita gli ebrei di tutto il mondo a insediarsi nello Stato ebraico, e incoraggia la colonizzazione dei territori occupati, dai quali continuano ad essere espulsi i palestinesi. Cos’è questo se non pulizia etnica?

Gli alberi e la foresta

Dinanzi alla terribile evidenza della realtà, come appaiono codisti gli appelli che una certa sinistra rivolge ai popoli palestinese e arabi a non occuparsi di problemi troppo “complessi” quali il sionismo o il razzismo di Israele, per concentrarsi invece sulla critica o sulla condanna di Sharon! Ma, da parte della sinistra occidentale, questa condanna è almeno all’altezza della situazione? Alla fine del 1948, in occasione della visita di Begin negli Usa, la Arendt chiamava alla mobilitazione contro il responsabile della strage di Deir Yassin, facendo notare che il partito da lui diretto risultava “strettamente imparentato coi partiti nazionalsocialisti e fascisti”. [19] Perché la sinistra occidentale non osa esprimersi con altrettanta chiarezza a proposito del responsabile del massacro di Sabra e Chatila?

Peraltro, se anche la condanna di Sharon fosse all’altezza dei suoi crimini, non per questo il discorso potrebbe considerarsi chiuso. Con la medesima logica, con cui una certa sinistra invita a lasciare da parte la questione del razzismo di Israele e del ruolo del sionismo, ci si potrebbe chiedere: perché non limitarsi alla denuncia del governo Berlusconi (o dei precedenti governo Amato e D’Alema) piuttosto che prendersela col capitalismo? E perché non concentrare il fuoco su Bush jr. (o su Clinton o su Bush sr.) piuttosto che tirare in ballo l’imperialismo? È la logica dei riformisti più mediocri e più spiccioli: sono disposti — bontà loro — a dare uno sguardo a questo o quell’albero, ma guai ad accennargli all’esistenza di una foresta!

Epperò, se non si prende visione della foresta non si potrà, nonché risolvere positivamente la tragedia del popolo palestinese, neppure analizzarla in modo adeguato. Questa tragedia non è iniziata con Sharon, o con Barak, e neppure coi governi ancora precedenti. Di “ingiustizia perpetrata ai danni degli Arabi” la Arendt parla già nel 1946, e in questa stessa circostanza afferma che la fondazione di Israele “ha poco a che fare con una risposta agli antisemiti”. [20] In effetti basta sfogliare anche rapidamente Herzl, per rendersi conto che per lui la contraddizione principale è quella che contrappone gli “ebrei fedeli alla stirpe” agli ebrei “assimilati”, accusati di fare il gioco di quanti vorrebbero il “tramonto degli ebrei mediante mescolamento” e pratica dei matrimoni misti (dove per matrimoni misti s’intendono anche quelli tra ebrei convertiti e ebrei “fedeli alla stirpe” e alla religione). [21]

La ferocia dell’antisemitismo (culminato nell’orrore di Auschwitz) ha senza dubbio alimentato in modo potente il movimento sionista, ma i suoi fondatori hanno sempre dichiarato in modo aperto che la scelta sionista è indipendente dall’antisemitismo e continuerebbe ad essere valida “anche se l’antisemitismo scomparisse completamente dal mondo”. [22] Per dirla con la Arendt, il sionismo è impegnato a utilizzare l’antisemitismo come “il fattore più salutare della vita ebraica”, come la “forza motrice” prima della creazione e poi dello sviluppo dello Stato ebraico. [23]

Particolarmente istruttiva è la recente visita a Mosca di Sharon. Egli ha preso atto dello sviluppo in Russia della vita culturale e religiosa della comunità ebraica: è una sorta di “epoca d’oro”. Tutto bene, dunque? Al contrario, perché il primo ministro israeliano ha così proseguito: “Ciò mi preoccupa, per il fatto che noi abbiamo bisogno di un altro milione di ebrei russi”. [24] Ad angosciare Sharon non è il pericolo dell’antisemitismo, ma, al contrario, quello dell’assimilazione. Diventano ora evidenti i risultati disastrosi cui conduce la tendenza a rivolgere lo sguardo ai singoli alberi presi isolatamente disinteressandosi però della foresta nel suo complesso. Si critica la politica di colonizzazione dei territori occupati, ma si tace sull’invito agli ebrei russi (o americani o tedeschi e di tutto il mondo) a immigrare massicciamente in Israele: come se fra le due cose non ci fosse alcun nesso! Se invece vogliamo cogliere tale nesso, dobbiamo osar guardare la foresta. Questa foresta è il sionismo, il colonialismo sionista, con le pratiche razziste che ogni forma di colonialismo comporta. Rifugiarsi nella “complessità” per eludere l’obbligo intellettuale e morale di esprimere un giudizio sul sionismo, significa assumere un atteggiamento simile a quello del revisionismo storico, il quale non si stanca neppure lui di sottolineare la “complessità”, questa volta del fascismo.

E non senza qualche ragione, dato che, a suo tempo, è stato lo stesso Palmiro Togliatti a mettere in guardia contro le semplificazioni sbrigative, richiamando l’attenzione sul fatto che il fascismo è sì un movimento reazionario, ma un movimento reazionario che, almeno per un certo periodo di tempo, grazie anche alla sua demagogia sociale, è riuscito a godere di una base di massa e persino ad attrarre intellettuali che successivamente avrebbero maturato una netta scelta a sinistra. È una lezione di metodo che va ben al di là dell’analisi del fascismo.

Il rinvio alla complessità è legittimo e fecondo allorché stimola un’articolazione più ricca e concreta del giudizio storico, chiamato a tener conto degli elementi di differenziazione e contraddizione che sempre insorgono nel corso del processo di sviluppo di un fenomeno storico complesso. Altre volte, invece, il rinvio alla complessità è una fuga dal giudizio storico, è un abbandono alla mistica dell’ineffabilità: è espressione di volontà mistificatrice ovvero di pavidità.

La causa antisionista dei palestinesi e la causa degli ebrei progressisti

Negare che il sionismo e la fondazione dello Stato di Israele siano in primo luogo la risposta all’antisemitismo e affermare che sin dall’inizio i palestinesi hanno subito un’ingiustizia, significa fare che ci si debba battere per la distruzione dello Stato d’Israele? A fondamento degli Usa c’è un crimine originario compiuto ai danni dei pellerossa e dei neri. E, tuttavia, nessuno pensa a ricacciare i bianchi in Europa, i neri in Africa e … a risvegliare i pellerossa dal sonno eterno. Sin dai suoi inizi, Israele ha trattato i palestinesi in parte come pellerossa (privati delle loro terre e talvolta sottoposti a decimazione), in parte come neri, discriminati, torturati, umiliati, nella migliore delle ipotesi costretti ad occupare i segmenti inferiori del mercato del lavoro. Il riconoscimento di questo crimine originario è il primo presupposto perché ci possano essere giustizia e riconciliazione.

Infine. Una critica così radicale di Israele e dello stesso sionismo non rischia di ridare fiato all’antisemitismo? Hannah Arendt si è fatta beffe del mito di un antisemitismo eterno. È un mito che affonda le sue radici nel sionismo. Almeno i suoi esponenti più radicali, a partire dalla loro visione naturalistica della nazione, tendono a istituire una contrapposizione naturale ed eterna “tra ebrei e gentili”. E cioè, il mito dell’antisemitismo eterno affonda le sue radici in una visione essa stessa densa di umori razzisti. In ogni caso, evidente è la componente sciovinista di questa visione. Non afferma Herzl che “una nazione è un gruppo di persone … tenute insieme da un comune nemico”? È a partire da tale “teoria assurda” — osserva la coraggiosa pensatrice di origine ebraica — che i sionisti coltivano il mito dell’antisemitismo eterno. [25] Sono osservazioni che risalgono al 1945, ma che oggi sono più attuali che mai. Ancora dopo la svolta in senso anticomunista e antimarxista, nel 1963 la Arendt dichiara che “l’antisemitismo, grazie a Hitler, è stato screditato, forse non per sempre, ma certamente almeno per l’epoca attuale”. [26] A sua volta un noto politologo americano ha scritto che, ai giorni nostri, “in Europa occidentale l’antisemitismo verso gli ebrei è stato in larga parte soppiantato dall’antisemitismo verso gli arabi”. [27] In realtà ciò non vale solo per le metropoli urbane in Europa occidentale, ma anche e soprattutto per il Medio Oriente.

L’autenticità dell’impegno contro il razzismo si misura non a partire dall’omaggio, pur doveroso, per le vittime del passato, ma a partire in primo luogo dal sostegno per le vittime odierne. Se oggi non sa fare propria sino in fondo la causa del popolo palestinese, la lotta contro il razzismo è solo una frase vuota. Si rimane allora allibiti allorché si legge su un “quotidiano comunista” l’invito a lasciare “l’antisemitismo — o l’antisionismo di principio — ai razzisti”. [28] L’autrice di questa affermazione, anzi di questa assimilazione, mentre si rifiuta di prendere in considerazione l’accusa di colonialismo e di razzismo rivolta al sionismo, di fatto non esita a bollare come razzisti, fra gli altri, Victor Klemperer e Hannah Arendt. Allorché quest’ultima, nel 1963, pubblica Eichmann a Gerusalemme, coi suoi strali contro il sionismo e contro il tentativo di Israele di strumentalizzare il processo in senso antiarabo, diviene il bersaglio di un’odiosa campagna internazionale che pretende di metterla in stato d’accusa in quanto antisemita. In Francia, il settimanale Nouvel Observateur, nel pubblicare stralci del libro (scelti con perfidia), si chiede dell’autrice: Est-elle nazie? [E’ nazista?] [29]

Questa campagna non è cessata, anche se ora ha di mira bersagli ritenuti più agevoli. Dalle colonne dell’International Herald Tribune esponenti progressisti della comunità ebraica americana hanno lanciato un grido d’allarme: ad essere oggetto di “de-umanizzazione” non sono soltanto i palestinesi, ma anche gli ebrei che esprimono un giudizio critico complessivo su Israele, giungendo talvolta a mettere in discussione il sionismo in quanto tale. È un atteggiamento che può costare loro caro, perché, oltre agli insulti, essi ricevono ripetute minacce di morte. [30] Accettando acriticamente l’equiparazione di antisionismo e antisemitismo propagandata dai dirigenti di Israele, una certa sinistra tradisce non solo la lotta dei palestinesi ma anche quella, sotto certi aspetti non meno difficile e non meno coraggiosa, degli ebrei progressisti in Israele e nel mondo.

Riferimenti bibliografici

  • Hannah Arendt, 1986 Ebraismo e modernità, a cura di G. Bettini, Unicopli, Milano
  • Hannah Arendt, 1989 Essays & Kommentare, a cura di E. Geisel e K. Bittermann, Tiamat, Berlin, vol. II: Die Krise des Zionismus.
  • Hannah Arendt, 1993 Eichmann in Jerusalem. A Report on the Banality of Evil (1963), tr. it., di P. Bernardini, La banalità del male. Eichmann a Gerusalemme (1964), Feltrinelli, Milano, V edizione

[1] Vladimir I. Lenin, 1955 Opere complete, Editori Riuniti, Roma, 1955 sgg., vol. XXXIX, p. 654. 

[2] Edward W. Said, 1995 La questione palestinese. La tragedia di essere vittima delle vittime, tr. dall’inglese di S. Chiarini e A. Uselli, Gamberetti, Roma, pp. 103-6. 

[3] Arendt, 1986, p. 83. 

[4] Arendt, 1989, pp. 114-5. 

[5] Arendt, 1986, pp. 85-8 e 92. 

[6] Victor Klemperer, 1996 Ich will Zeugnis ablegen bis zum letzten, vol. II: Tagebücher 1942-1945, a cura di W. Nowojski con la collaborazione di H. Klemperer, Aufbau, Berlin (quinta edizione), vol. II, p. 146. 

[7] Victor Klemperer, 1996 Ich will Zeugnis ablegen bis zum letzten, vol. II: Tagebücher 1942-1945, a cura di W. Nowojski con la collaborazione di H. Klemperer, Aufbau, Berlin (quinta edizione), vol. II, pp. 142 e 146. 

[8] Victor Klemperer, 1996 Ich will Zeugnis ablegen bis zum letzten, vol. I: Tagebücher 1933-1941, a cura di W. Nowojski con la collaborazione di H. Klemperer, Aufbau, Berlin (quinta edizione), vol. I, p. 565. 

[9] Theodor Herzl, 1920 “Der Judenstaat” (1896), in Theodor Herzl’s Zionistische Schriften, a cura di L. Kellner, Jüdischer Verlag, Berlin-Charlottenburg, vol. I, pp. 117-8. 

[10] Arendt, 1989, p. 115. 

[11] Arendt, 1986, pp. 101-2. 

[12] Arendt, 1986, p. 30 nota 11 e p. 98. 

[13] Arendt, 1986, pp. 107-8 e 131. 

[14] Arendt, 1993, pp. 15-6 e 48. 

[15] George L. Mosse, 1968 The Crisis of German Ideology (1964), tr. it., di F. Saba-Sardi, Le origini culturali del Terzo Reich, il Saggiatore, Milano, p. 270. 

[16] Robert A. Levine, 2001 “The Jews of the Wide World Didn’t Elect Sharon”, in International Herald Tribune del 5 giugno, p. 8. 

[17] Michael Lerner, 2001 “A Jew Gets Death Threats for Questioning Israel”, in International Herald Tribune del 23 maggio, p. 9. 

[18] Lee Hockstader, 2001 “Palestinian Authority described as ‘Terrorist’”, in International Herald Tribune del 1 marzo, p. 4. 

[19] Arendt, 1989, p. 113. 

[20] 1986, p. 133. 

[21] Theodor Herzl, 1920 “Der Judenstaat” (1896), in Theodor Herzl’s Zionistische Schriften, a cura di L. Kellner, Jüdischer Verlag, Berlin-Charlottenburg, vol. I, pp. 52 e 49. 

[22] Max Nordau, 1913 Der Zionismus. Neue, vom Verfasser vollständig umgearbeitete und bis zur Gegenwart fortgeführte Auflage, a cura del Wiener Zionistischen Vereinigung, Buchdruckerei Helios, Wien, p. 5. 

[23] Arendt, 1986, p. 125. 

[24] In William Safire, 2001 “Sharon in Moscow, Sword in Hand”, in International Herald Tribune dell‘8-9 settembre, p. 4. 

[25] Arendt, 1986, pp. 90 e 97-8. 

[26] Arendt, 1993, pp. 18-9. 

[27] Samuel P. Huntington, 1997 The Clash of Civilisations and the Remaking of World Order (1996), tr. it., di S. Minucci, Lo scontro delle civiltà e il nuovo ordine mondiale, Garzanti, Milano, p. 293. 

[28] Rina Gagliardi, 2001 “Discutendo di sionismo e sinistra”, in Liberazione del 29 agosto, p. 8. 

[29] Amos Elon, 1997 “The Case of Hannah Arendt”, in The New York Review of Books, 6 novembre 1997, pp. 25 e 29. 

[30] Michael Lerner, 2001 “A Jew Gets Death Threats for Questioning Israel”, in International Herald Tribune del 23 maggio, p. 9.